Quelle navi a motore umano
raccontate da Pantero Pantera

In un libro dedicato alla storia delle imbarcazioni su cui remavano i condannati, gli scritti del grande navigatore lariano che fu anche a capo della flotta pontificia

b.faverio

Quando, il 7 ottobre 1571, le flotte congiunte della Cristianità - con l'eccezione della Francia, prudentemente neutrale - debellarono quella ottomana a Lepanto, il comasco Pantero Pantera non aveva che tre anni. Può darsi che le descrizioni pittoriche della battaglia, che fiorirono nelle chiese anche lombarde, un qualche effetto su di un giovanissimo nobile e dal nome tanto battagliero, davvero feroce, lo abbiano avuto. Perché Pantero Pantera divenne un grande navigatore, assoldato giovanissimo dalla flotta pontificia, allora cospicua, tanto da diventarne in poco tempo comandante. Una curiosità: se non avesse fatto il politico, Andreotti avrebbe probabilmente continuato i suoi studi storici: che erano appunto sulla marina pontificia. Altro che quiete acque lacustri. Pantera si distinse nel Mediterraneo al comando della Santa Lucia, una galera, e, si dice, a bordo della stessa, scrisse un testo fondamentale, "L'armata navale", pubblicato a Roma nel 1614, e oggi rarità bibliografica. Ma il richiamo di folaghe, svassi e cigni del lago vinse quello delle maestose ma infide serene mediterranee. Nel 1617 Pantera, ricco d'onori, tornò sul Lario e prese dimora a Blevio. Ove morì nel 1625. Poi la storia lo condannò ad un parziale oblio, una coltre che solo oggi si solleva. La villa che si fece costruire non esiste più; nessuno gli ha mai dedicato la monografia che meriterebbe, e alcuni studiosi lo pensano ancora genovese, o romano; ché a Roma lo ricorda una piazza alla Garbatella, da quelle parti andava spesso Pasolini, alla locale sezione PCI. Pantera lasciò almeno un inedito importante, la "Hidrographia nautica mediterranea", un portolano ricchissimo, che studiosi anche di vaglia danno ancora per edito; perché interessò a fine Ottocento l'insigne storico locale Cencio Poggi, che non ne pubblicò che qualche estratto, con poco rigore. Ora lo sta trascrivendo un mio collaboratore, per fornirne un'edizione degna di tanta opera e tanto… felino. Il nostro Pantero però per ora ce lo riporta all'attenzione una giovane scrittrice, e studiosa di storia moderna, Maria Antonietta Pinna. Nel suo "Dalle galee al bagno al carcere" (Armando Siciliano editore, 2010), l'autrice offre un interessante, vivace, anche se a tratti rapsodico e frammentato percorso nella storia del carcere. Che inizia, appunto, con le galee, o galere, di cui Pantera fornisce un quadro sistematico, nell'opera del 1614. Le galee altro non sono che l'evoluzione alto-medievale della "triremis" o triere e della "biremis" o biere romana; navi fondamentalmente da guerra, poco adatte al trasporto, ma molto utili per i "lavori forzati", questa istituzione antica e ben nota, ad esempio, agli ebrei dei templi biblici: di forzati si parla in Genesi, 5quelli reclutati da Salomone, re crudelissimo per quanto, forse, poeta. Ma anche i fratelli di Mosè, così si narra nell'Esodo, erano stati condannati ai lavori forzati. Ma poi come al solito sono i Romani a precisare l'istituto, con la «damnatio in opus publicum». Una storia lunga e dolorosa, quella che traccia la Pinna, che porta ai bagni penali ottocenteschi - singolare anche qui il legame, anche soltanto linguistico, con le acque - e poi al carcere attuale. Pantera vi fa la parte del leone: almeno per il Rinascimento, che vede un fiorire di nuove tecniche di cantieristica navale: ove primeggia la Serenissima, ovviamente, con il suo splendido arsenale. Le "galere bastarde", "patrone" o "reali", combinavano la forza delle braccia con quelle del vento. Anche se la galera, veramente, come la definì Antonio Parente, studioso e amministratore delle patrie (italiche) galere, è una «nave a libero motore umano». Pantero, inflessibile comandante, ottimo nocchiero, grande scrittore, le conosceva tutte. Ma non solo di galere parlava, anche di altri «vasi a vela quadra» di cui oggi le tracce sono poche o nulle, dai nomi singolari: lo "schifazzo", ad esempio: che portava merci come vino, pesce e zolfo sulle coste siciliane: pare che nel 1867 a Trapani vi fossero ancora 120 schifazzi. E magari qualcuno in Trinacria, navigante o no, lo troviamo ancora adesso. Venivano anche utilizzati per la pesca a strascico, a "paranza", ovvero in coppia. Pantera descrive oggettivamente, senza grandi moti di pietà, le pene e la vita di stenti dei galeotti, le loro razioni troppo spesso carenti di cibo, il problema delle malattie di mare, l'enorme difficoltà nel tenere la disciplina; ma anche la vita a bordo che vedeva uomini liberi, i "buonavoglia", convivere spesso con asprezza con i forzati. Le parole di Pantera la dicono tutta: «Se non fosse stato - scrive Pinna citando Pantera - 'per certi vagabondi, schiocchi e schiavi dei propri vizi, che vendevano se medesimi per necessità', non si sarebbe trovato 'alcun uomo che spontaneamente volesse sottomettersi ad una vita così infelice, e piena di tanti miserabili ed horribili accidenti'».

Cultura e Spettacoli

Giovedì 16 Settembre 2010

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