Dalla crisi della vecchia Europa
una spinta verso la rinascita

Sul periodico dell'Università Cattolica un intervento del sociologo comasco Mauro Magatti - "L'errore strategico è stato interpretare il neoliberismo solo in temini di mercato"

Pubblichiamo un estratto del saggio «Dal Vecchio Continente uno slancio per rinascere» a firma Mauro Magatti, comasco, preside della Facoltà di Sociologia dell'Università Cattolica di Milano, apparso sull'ultimo numero di «Vita e Pensiero», periodico della stessa università.

L'Europa sta attraversando un momento molto delicato: cambiati gli assetti costruiti alla fine della Seconda guerra mondiale, la perdita di centralità negli equilibri globali, dovuta al progressivo spostamento del baricentro del mondo verso il Pacifico, è causa ed effetto dell'incapacità di individuare una prospettiva di sviluppo in grado di rispondere in modo convincente alle sfide della trasformazione in atto.
Per molti aspetti, la portata e il significato di un tale indebolimento rimangono ancora da chiarire. E non è nemmeno detto che la crisi nella quale versa il Vecchio Continente debba necessariamente essere un male: potrebbe essere, invece, che le difficoltà poste dalla nuova fase storica costituiscano l'occasione per una «rinascenza» dello spirito europeo, come già altre volte è accaduto nel corso della sua storia millenaria. (...)
La spiegazione che propongo è che le gravi difficoltà in cui versa l'Europa abbiano prima di tutto a che fare con la nuova fase di quel «corpo a corpo con il nichilismo», profetizzato da Nietzsche nel 1878, che si definisce nel quadro delle sfide portate dalla globalizzazione degli ultimi anni. La prima fase – che ci siamo lasciati alle spalle – è quella associata alla drammatica esperienza del nazismo e della shoah, quando la volontà di potenza e la piena disponibilità del mondo all'opera dell'uomo si sono manifestate in un delirio di violenza, alimentato e reso possibile dall'idea di superuomo che, in quanto tale, osa affrontare le imprese più ardite.
La Seconda guerra mondiale, da un lato, e lo shock causato dalla scoperta dello sterminio sistematico contro uomini e donne inermi perpetrato nel cuore del Continente, dall'altro, hanno determinato una reazione che ha innervato l'Europa (dell'Ovest) a metà del XX secolo. In quei decenni pieni di speranza e operosità, le società europee furono capaci di esprimere grandi energie morali volte a costruire un continente pacificato e a unire le forze in vista di una nuova fase di sviluppo segnata da elevata integrazione sociale.
Con il passare degli anni, quelle energie si sono smorzate e, con la fine del XX secolo, l'Europa è ripiombata in un clima culturale di matrice nichilista, che sembra tarpare le ali a qualunque tentativo di immaginare un futuro e una speranza per il Vecchio Continente. Si è così affermato un «capitalismo tecno-nichilista», come modello di accumulazione economica che cerca di realizzare la crescita abbinando due fattori molto diversi tra loro: un'innovazione tecnica sempre più rapida, pervasiva, globale, acefala; una cultura nichilistica, di stampo ipersoggettivistico, che pretende di poter disporre liberamente di qualsiasi significato.
In questo modo, il capitalismo tecno-nichilista apre una nuova stagione di accumulazione, coltivando la segreta speranza di poter finalmente rimuovere tutti gli ostacoli (sociali, culturali, istituzionali) che ne rallentano il pieno dispiegamento. Almeno nelle sue premesse teoriche, il capitalismo tecno-nichilista ha la pretesa di superare definitivamente la questione della trascendenza, essendo capace di generare un'immanenza che non è più statica, ma intimamente dinamica. All'infinito di Dio si sostituisce l'infinitazione del mutamento continuo.

Il modo in cui il capitalismo tecno-nichilista si dispiega varia notevolmente nelle diverse aree del mondo. Non ho lo spazio qui per considerare le altre regioni. Ma per quanto riguarda l'Europa, l'adattamento tentato in questi decenni mostra oggi, al giro di boa segnato dalla crisi finanziaria del 2008, la sua evidente insostenibilità.
I dati sulla crescita dimostrano che l'Europa (al di là delle tante differenze nazionali che pure sono importanti, ma di cui qui non possiamo occuparci) ha partecipato solo tangenzialmente alla forte accelerazione economica degli ultimi decenni. Anzi, la sensazione prevalente in Europa è stata quella di aver attraversato un lungo periodo di stasi, con tassi di sviluppo non particolarmente elevati e una diffusa insoddisfazione sociale e politica. Un periodo che culmina oggi con le difficoltà ben note.
Le ragioni di tale situazione sono tante e complesse. La mia tesi è che, nel suo insieme, l'Europa non ha capito gli ultimi 30 anni, prendendo coscienza solo di alcuni aspetti, in un mix che si rivela non solo poco efficace, ma, alla fine, anche pericoloso.
L'errore strategico è stato quello di aver interpretato il neoliberismo solo nei termini “interni”, riassunti dalla opzione a favore del mercato.
Effettivamente, si tratta di un aspetto importante, che sta alla base della nuova fase di sviluppo. Ma l'errore è quello di non aver capito che, nel passaggio dallo Stato al mercato, a venire ristrutturati erano anche altri due aspetti: 1) la responsabilità del singolo rispetto alla propria condizione e alla vita sociale in cui è immerso; 2) la matrice spazio-temporale entro cui gli equilibri sociali vengono costruiti (e in particolare la ridefinizione del nesso spaziale tra creazione del consenso politico nazionale e sviluppo economico globale).

Mauro Magatti

© RIPRODUZIONE RISERVATA