Cultura e Spettacoli
Martedì 30 Novembre 2010
"Sognavo di fare il pane
per uscire dall'inferno"
I ricordi di Carlo Carugati, originario di Guanzate e residente a Caslino al Piano, 96 anni. Ex panettiere, fu tra i pochi superstiti del massacro di Cefalonia, all'indomani dell'8 settembre 1943. A "La Provincia" ricorda la sua esperienza straordinaria: vide uccidere 500 ufficiali, ma si salvò dalla fucilazione; per caso evitò anche di salpare sulla nave che poi esplose tra le mine...
di Alberto Galimberti
Carlo Carugati ha 96 anni e una storia da raccontare. Più precisamente Carlo Carugati, originario di Guanzate e residente oggi a Caslino al Piano, ha una storia da "salvare": quella di un panettiere sopravvissuto all'eccidio di Cefalonia del Settembre 1943.
«Un adagio popolare suggerisce che a Guanzate si piantano le patate e nascono i prestinèe. Non so quanto sia vero, certo è che a 14 anni lavoravo già presso un fornaio in via del Torchio a Milano. Poi l'Italia entrò in guerra, il Duce nel tentativo di emulare le conquiste di Hitler invase la Grecia ed io, nel maggio del 1943, fui inviato ad Argostoli, capitale di Cefalonia». L'ex caporale della divisione Acqui, inanella la successione dei ricordi con una semplicità disarmante: «Sebbene fosse il mio primo incarico ero sereno, sull'isola il rapporto tra italiani e tedeschi era di reciproca collaborazione, mentre la popolazione greca, dopo le esitazioni iniziali, aveva fraternizzato con gli occupanti e dunque non c'era ragione di preoccuparsi». A interrompere quella stabilità giunsero l'8 settembre; il cambio di alleanze in corso di conflitto; il re Vittorio Emanuele III in fuga a Brindisi e l'esercito lasciato in balia di se stesso: «Furono ore concitate e tutti, dal generale Gandin all'ultimo soldato, erano preda del disorientamento. Dapprima il generale cercò di intavolare una mediazione con il tenente colonnello tedesco Barge. Ma le trattative sfumarono e i comandi teutonici, tramite un ultimatum, ci intimarono la consegna delle armi». Allora, in una circostanza straordinaria, accadde qualcosa d'inedito per un esercito - un'organizzazione tradizionalmente gerarchica e composta da una minoranza che prende le decisioni e una maggioranza che le esegue: «Il generale Gandin indisse un referendum: scegliere la resa incondizionata o la resistenza ad oltranza, consapevoli che i tedeschi disponevano di un migliore equipaggiamento militare e presto avrebbero ingrossato le loro fila. L'esito della votazione decretò la non consegna delle armi e, quella, fu la nostra di dichiarazione di guerra». Ora l'incedere delle parole del signor Carugati si fa più lento, quasi rivivesse quei drammatici momenti mentre i suoi occhi s'inumidiscono: «I tedeschi inviarono subito alcune truppe speciali d'assalto e i micidiali aerei Stukas cominciarono a bombardare senza sosta Argostoli. La nostra resistenza venne piegata. Poco prima che divampò lo scontro, io ricevetti l'ordine di rafforzare un presidio alimentare fuori città ed evitai il violento attacco e le successive rappresaglie». Ma la resa incondizionata del contingente italiano non bastò a placare l'efferata azione degli ex-alleati: «Con la scusa di risparmiargli la vita, radunarono 500 ufficiali in una casetta rossa posta sopra una collina. Li fucilarono brutalmente per eliminare qualsiasi riferimento alle nostre truppe che contarono più di 3000 perdite. Quando tornai indietro, vidi i cadaveri degli ufficiali ammassati in una stanza: fu il giorno più brutto della mia vita. Erano bravi ragazzi che morirono stringendo nel palmo della mano la foto dei familiari o delle piccole croci. Cercai di trovare rifugio presso una casa abbandonata, ma i militari del Führer sembravano accecati dalla collera e non smisero le ricerche. Fui catturato e destinato insieme a tanti altri prigionieri a tornare in nave in Europa, ma per la seconda volta la fortuna mi assistette. Non c'era, infatti, posto per me sulle navi stracolme d'italiani che, poco dopo essere salpate, incapparono in mine galleggianti».
L'odissea di Carlo Carugati e di un esiguo drappello di militari conobbe altri mesi difficili: «Fummo trasferiti a Salonicco, successivamente in Jugoslavia e passammo sotto il comando degli Slavi alleati con la Germania. Poi i partigiani di Tito prevalsero e noi diventammo loro prigionieri, anche se il termine più appropriato è schiavi perché nei campi di lavoro a Novi Sad eravamo costretti a una vita disumana, riempiendo per 16 ore consecutive interi vagoni di pietre. Mai come in quelle ore prive di futuro le mie mani si sentirono orfane di farina e lievito, di quella strana magia che le avvolgeva quando sfornavano il pane».
Il panettiere, diventato prima soldato e poi prigioniero, decide di accompagnare il finale del racconto con un lieve sospiro e un abbozzo di sorriso sul volto. «Resistetti al dolore e alla nostalgia. Mi liberarono iI 1° dicembre del 1946. Tornai in Italia in nave, a Milano in treno, in paese a piedi. Ero stato scaraventato nell'inferno e volevo conquistarmi il mio paradiso: sposai la donna che amavo, feci una famiglia, comprai il negozio in via del Torchio e ricominciai a impastare il pane. E così fui salvo».
© RIPRODUZIONE RISERVATA