Marinetti vista lago,
scorci ancora futuribili

Nel libro di Longatti, dedicato a Marinetti "comasco", risvolti poco noti del celebre padre del Futurismo, morto a Bellagionel dicembre 1944. L'italianista Roncoroni ha letto per noi il volume, rilevandone l'attualità, sia sul piano della ricerca storica, sia su quello della cultura comasca.

di Federico Roncoroni

Quando voglio parlare di un libro dedicato da uno studioso di alto livello a un grande personaggio delle lettere o delle arti, trovo sempre difficile decidere se parlare dell'autore o, come sarebbe più normale, del personaggio. Di solito, parlo del libro, che mi consente di parlare dell'uno e dell'altro. Tuttavia,  a suscitare il mio interesse più profondo finisce sempre per l'essere l'autore, di cui mi piace cercare di capire perché ha scelto proprio quel personaggio e perché lo tratta come lo tratta e non in un altro modo. Mi è capitato, negli anni, con tutte le biografie di Gabriele d'Annunzio: conoscevo bene, a causa di una ultradecennale convivenza, la vita di D'Annunzio e quindi, poiché non mi aspettavo niente di nuovo su di lui, finivo per leggerle solo per capire chi mai era il biografo, da quale punto di vista avrebbe guardato il mio odiosoamato eroe e quale trattamento gli avrebbe riservato.
Mi è capitato, qualche mese fa, con la biografia di Giacomo Leopardi scritta da Pietro Citati, che non ho potuto non leggere per quella che era: un'autobiografia di Citati per interposta persona. E mi capita ora che ho tra le mani, fresco fresco di stampa, il Marinetti di Alberto Longatti, che ho preso a leggere non tanto perché tratta del fondatore del Futurismo, sul quale credevo, e non era vero, di sapere tutto quello che c'era di sapere, ma perché è di Alberto Longatti, uno studioso che seguo e stimo da una vita, e perché non tratta  di Marinetti in generale, cosa che sarebbe stata quasi inutile, così vicina alle celebrazioni dell'anniversario del «Manifesto del Futurismo», bensì di un aspetto particolare e preciso del personaggio, un aspetto che ci riguarda da vicino e che non era mai stato sviscerato a fondo: i rapporti tra Marinetti e Como e, più latamente, il Lario.

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Tutti, infatti, sanno che Marinetti è morto a Bellagio, ma come e perché abbia finito per spiaggiare - lui, balena dei grandi spazi - proprio sulle sponde di un lago tanto fascinoso quanto malinconico come il Lario d'inverno, non è cosa molto nota e bene ha fatto Longatti a occuparsene.
Di cose nostre, di letterati e artisti della nostra piccola patria, Longatti si occupa da sempre, e principalmente di quegli intellettuali che nella prima metà del Novecento hanno avuto a che fare con Como e con il Lario, fossero essi comaschi o <+G_CORSIVO>laghée<+G_TONDO>, di nascita o di elezione, o fossero venuti attivamente in contatto con la città, il lago o gli intellettuali indigeni. Facendo perno su Antonio Sant'Elia, che è quello che maggiormente gli sta a cuore e di cui è giustamente considerato, se non il massimo, uno dei massimi studiosi, ha allargato i suoi interessi ad abbracciare e a fare oggetto dei suoi studi i grandi, e anche i meno grandi, esponenti di quel fervore culturale: Gian Pietro Lucini, Carlo Dossi, Carlo Linati, Paolo Buzzi e Giuseppe Terragni, per citare qualcuno dei primi, e, poiché nel gran corpo della cultura, come nel gran corpo umano, "tutto si tiene", inevitabilmente, Emilio Angelo Carlo Marinetti, meglio noto come Filippo Tommaso Marinetti. Inevitabilmente, in quanto il "rumoroso trombone" del Futurismo, l'inventore delle tavole parolibere, il grande amico e sostenitore di Sant'Elia, il teorico dell'aeropittura, il pluridecorato accademico d'Italia, insignito della carica e soprattutto agghindato della pomposa divisa per volontà di Benito Mussolini in premio e a sprone del suo impegno per l'affermazione internazionale dell'italica stirpe, l'ultrasessantenne poeta-soldato della Seconda guerra mondiale, domina, non certo suo malgrado, il panorama culturale e mondano dell'epoca: non - si badi - il panorama più importante, quello che sui tempi lunghi segnerà di sé più che il costume la letteratura italiana, ma quello più appariscente, più rumoroso e, non per niente, più vicino al fascismo: un panorama che lui, il fautore del "verbo nuovo" contro gli "schiavi del passato", attraversò, senza il supporto della genialità creativa di un Gabriele d'Annunzio, come se fosse il proscenio di un teatro, fino a meritarsi per decenni la rimozione e la condanna della critica che a lungo non volle riconoscergli, per la sua connivenza con il fascismo, neppure la validità, o semplicemente la portata storica e internazionale, della sua azione dirompente, in sintonia (e talora in anticipo) con le altre avanguardie europee coeve, dall'Espressionismo al Surrealismo.

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Mi sono spesso chiesto perché Longatti si sia dedicato per tutta la vita a studiare gli intellettuali e gli artisti di quegli anni e me lo chiedo oggi, di fronte a questo bel libro marinettiano, bello perché concepito da un saggista e critico di razza quale egli è, ma scritto da uno che ha fatto il giornalista - "giornalista culturale" per cortesia, come precisa nella breve Notizia su di sé, nel risvolto della quarta di copertina. Si è occupato, è vero, pure di letteratura, architettura, arte e teatro dell'ultimo Ottocento, con qualche incursione nella letteratura del Settecento, ma è noto, anche fuori dei nostri confini - già negli anni Ottanta-Novanta era uno dei due o tre comaschi di cui, consultando compulsivamente gli schedari delle library universitarie americane alla ricerca dei miei libri, ho trovato sempre traccia - per i suoi studi sui personaggi che ho nominato. Perché ha dedicato tanto ardore di ricerca su quel piccolo mondo di letterati che hanno sempre goduto di tirature esigue e di scarso successo di pubblico? Perché si è sempre impegnato a risvegliare l'attenzione su architetti più famosi all'estero che in Italia, come lo stesso Sant'Elia, o su pittori che ancora oggi sono l'orgoglio di pochi e lungimiranti collezionisti nostrani, benché siano da anni entrati nei libri di storia dell'arte? Un tempo pensavo che lo facesse perché era comasco, comasco colto e raffinato, e perché nulla di ciò che era comasco riteneva estraneo alla sua curiosità o immeritevole di essere studiato. Pensavo e mi dicevo: ha sempre dato ascolto alle richieste dei suoi concittadini contemporanei, specialmente ai giovani, che ha aiutato in tutti i modi - chi non ha avuto da lui una recensione, una introduzione a un libro, una premessa a un catalogo? mai si è fatto pregare ed ha sempre accontentato tutti, con testi di grande qualità, non  privi, quando era necessario, di quel pizzico di ironia che al lettore attento faceva intuire le sue riserve critiche sullo spessore reale dell'autore, poeta, romanziere o pittore che fosse? Perché dunque non doveva cercare di ridare la visibilità che meritavano pure ai comaschi, grandi e meno grandi, che hanno animato  e spesso onorato la nostra cultura negli anni passati?

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Ma l'amore del natio loco mi è parso presto insufficiente a spiegare tanto interesse e tanta ricchezza di risultati. Allora, ho pensato che accanto a quell'amore c'era qualcosa di più. C'era la nostalgia per quel mondo: il mondo delle biciclettate di Linati sulle tracce di Renzo, dei bei conversari tra Dossi, Botta, Buzzi  e Lucini, a Cardina o nella tana luciniana di Breglia e  delle loro discussioni artistiche e letterarie, insomma di quel vivere tra intellettuali che spesso sotto i sorrisi e le cordialità mascheravano le inimicizie e le gelosie più brucianti e i cui rapporti affettuosi evolvevano nel giro di poco tempo in rancori urticanti, ma che, vivaddio, pur senza mai perdere di vista la difficile realtà politica e sociale del tempo, parlavano di cose serie e belle; un mondo in cui c'erano donne come Margherita Sarfatti, che dirozzò anche Mussolini, Carla Badiali e Carla Porta Musa, e le ballerine del "varietà" o le acrobate del circo dilapidavano allegramente i patrimoni di privati cittadini senza aspirare a prebende o ruoli pubblici. Li studiava anche, quegli autori, perché avrebbe voluto, e avrebbe potuto, se fosse vissuto in quegli anni là, essere uno di loro, specialmente da giovane, quando a Pavia frequentava Cesare Angelini, che vent'anni dopo si ricordava ancora di quel giovane lungo e secco che andava a fargli visita in Borromeo e che poi era scomparso nel nulla. E li studiava, infine, perché la Como culturalmente viva di quegli anni gli manca, come manca a me e chissà a quanti altri: la Como che costruì il «Carducci», affollò le celebrazioni voltiane, assistette allibita il 20 aprile 1911, al «Politeama», alla "serata futurista" di Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni, Luigi Russolo e Carlo Carrà, e contro tutte le aspettative si limitò a reagire polemicamente solo davanti alle esagerazioni più eccessive e provocatorie di quei quattro "bravi ragazzi", troppo "ingegnosi" e "casinisti" per il buon senso dei comaschi di allora e di sempre. Mancano, a Longatti, la prosa incisiva di Lucini, quella elegante di Linati, quella sottile e ironica di Paolo Buzzi. Gli mancano persino gli uomini politici del tempo, quelli che, pur sotto il pugno di ferro del centralismo fascista, e pur con scopi, per forza di cose, propagandistici, organizzarono al Broletto, nel settembre 1930, la mostra su Sant'Elia e favorirono in ogni modo il grande progetto di erigere, prendendo spunto proprio da un disegno di Sant'Elia, il Monumento ai Caduti e lo gestirono in modo da affidarne l'esecuzione a un comasco, Giuseppe Terragni.

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Tutto il libro che Longatti dedica a Marinetti è percorso dalla nostalgia di quegli anni e dall'implicita polemica con questi nostri, di anni: quelli delle "grandi" e inutili mostre, che scavano nel bilancio comunale buchi più profondi delle fosse che rendono pericolose le strade della città, quelli in cui,  per l'incapacità  e la stoltezza dei politici di turno non si realizza mai niente - vedi l'ex Ticosa, le paratie a lago, la piazza Cavour - , quelli in cui uno dei pochi vanti del lago è la presenza di Georges Clooney, quelli in cui gli intellettuali e gli artisti, giovani e vecchi, vanno a cercare all'estero fortuna o conferme negli Stati Uniti, e quando il frutto del loro ingegno o la loro fama tornano in città attraverso le riviste o la televisione ci domandiamo, stupiti, «ma perché non li abbiamo capiti e aiutati noi?».
Ho parlato più di Alberto Longatti, come volevasi dimostrare, che del suo libro e di Marinetti, e più del presente che del passato. Ma non poteva essere diversamente: un libro che parla degli "antiqui umani" - e Marinetti, Linati, Lucini, Buzzi, Sant'Elia sono ahimè proprio "antiqui" - non può essere un buon libro se non dice, direttamente o indirettamente - qualcosa anche di noi, oggi. E questo libro, così ben costruito, con la sua alternanza di parti storico-biografiche che, sullo sfondo delle vicende cittadine e nazionali,  delineano, occasione per occasione, la cronaca delle "visite" sempre "eccezionali" di Marinetti sul Lario, a parti in cui vengono riportati documenti e approfondimenti relativi a quelle visite e alle conseguenze che ne sono venute, è, oltre che un gran bel libro, un libro pienamente attuale.

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Non si dolga Longatti se non ha potuto dotare le sue pagine di minuziose note bibliografiche, come avrebbe voluto. Non se ne dolga. Il libro è bello - interessante, significativo e importante - così come è, perché è chiaro e piacevole, pieno di fatti e di aneddoti e ricco di illustrazioni: foto inedite o poco conosciute di Marinetti, dei suoi amici e della sua bellissima e giovane moglie, facsimili di lettere e riproduzioni di manifesti e di testimonianze dell'epoca.
Dietro la produzione del libro sta, tra l'altro, la benemerita "Famiglia Comasca", che certo garantirà al volume quella diffusione che merita, facendolo pervenire, mi auguro, a tutti quanti hanno a cuore Como, il Lario e la sua cultura. E, quindi, per cortesia, non ai politici.

Alberto Longatti, «Marinetti e il Lario», Edizioni Famiglia Comasca, 2010, s.i.p.

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