Quella buona notizia
nata quasi per magia...

Provate a immaginare la redazione di un quotidiano, alla Vigilia di Natale. Con i pastori al posto dei redattori e le pecore che brucano il pavimento, mentre si aspetta l'arrivo di tre personaggi di rilievo internazionale... Ce n'è abbastanza per incuriosire e suscitare, almeno, un'alzata di sopracciglio nei lettori più esigenti. Il nostro consiglio? Mettetevi comodi e ascoltate le parole del signor Bargilli, decano dei giornalisti di «La nostra voce», grande affabulatore. Con buona pace della cronista di nera Elettra Volpi, del collega Liberto Daverio-Moneta, firma delle pagine economiche e, soprattutto, del rutilante Porfirio Lapalla della cronaca sportiva, la notizia migliore è proprio quella narrata da Bargilli. Diamo la parola a Mario Schiani: il racconto di Natale, quest'anno, porta la firma dello scrittore e giornalista comasco.

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di Mario Schiani

La sera della Vigilia, in attesa della chiusura, Nicodemo, barista del "Prima pagina", difendeva il Natale dallo scetticismo di un riccioluto avventore al quale aveva servito, in pieno spirito festivo, un "grog" meno annacquato del solito: «Il Natale è una magia» sosteneva, «un mistero gioioso».

«Ma no! È tutta pubblicità» ribatteva l'avventore. "Consciu…», il rum schietto gli impastava la lingua: «Consciumismo, affariscmo. Sciolo una sc… cusa per cavar soldi alla gente».

Nicodemo, che non vedeva peccato nel guadagnare il giusto, fece osservare come il Natale dovesse senz'altro avere «qualcosa di straordinario» se riusciva «a far aprire il borsellino a quelli lì».

«Quelli lì», nel vocabolario di Nicodemo, erano i redattori de "La nostra voce", il quotidiano che apriva i suoi uffici di fronte al bar. Dal primo pomeriggio fino a notte fonda, i giornalisti facevano spesso visita al "Prima pagina": per un caffè, un tramezzino, una spremuta; la sera tardi, anche per qualche bevanda più corroborante. Clienti assidui, senza dubbio, ma non per questo apprezzati dal burbero Nicodemo: ordinavano e non pagavano, limitandosi a insistere, con gesto vago, perché la consumazione venisse «segnata sul conto», primo passo perché sprofondasse poi tra i crediti inesigibili.

Non così a Natale, quando perfino la loro razza di insolventi sembrava possedere un cuore. «Ecco, Nicodemo, tieni: e buon pro ti faccia» auguravano i redattori degnandosi, per qualche giorno appena, di saldare in contanti "cognac" speziati e "rum" caldi.

Nicodemo incassava e apprezzava. La sera della Vigilia arrivava a provar simpatia per quei perdigiorno. Tradizione imponeva che, dopo la chiusura del giornale, si trovassero tutti al "Prima pagina" per un brindisi augurale: incredibile a dirsi, nell'occasione onoravano le ordinazioni fino all'ultima lira. Non solo, parevano aver fretta di correre a casa, in famiglia, da quelle mogli e da quei mariti negletti per il resto dell'anno, trascorso a inseguire scandali, fattacci di "nera" e record sportivi.

La Vigilia, Nicodemo poteva dunque sperare di chiudere presto e con la cassa piena: nell'universo dei baristi, praticamente il paradiso. Quella Vigilia non fece eccezione.

L'avventore avverso al Natale, rinunciando finalmente a contraddire, barcollò fino all'uscita; i giornalisti calarono il sipario poco più tardi: a Nicodemo non restava che spegnere le lucine dell'albero, contare l'incasso e andarsene a casa.

Quasi gli venne un colpo quando, dall'ombra di un tavolo appartato, emerse la sagoma rotonda del signor Bargilli.

Afferratagli una manica con la sua presa benevola e ferma insieme, il decano dei giornalisti volle complimentarsi con lui: «Mio caro Nicodemo» disse con cordialità, «ho molto apprezzato la tua difesa del Natale. La condivido in ogni parola. Purtroppo, in questo vecchio mondo i cinici non rischiano mai l'estinzione anche se, naturalmente, sarà ben difficile che qualcuno di loro arrivi a rivaleggiare con il collega Rosito Lignardi».

E mentre Nicodemo scoppiava in un pianto silenzioso, il signor Bargilli incominciò a raccontare.

 

* * *

 

In una lontana Vigilia di Natale (disse il signor Bargilli), al «Prima pagina» il brindisi dei redattori era in pieno svolgimento.

Come si sa, è impossibile riunire due o più giornalisti in una stanza senza che si accenda una disputa. Quella notte, le "firme" del quotidiano, tra un "punch" e un "whiskey", discutevano su quale fosse stata la notizia dell'anno.

Elettra Volpi, prodigiosa cronista di "nera", proponeva con enfasi il caso dell'incallita rapinatrice Gondoleta Bonarenzi. Costei, avendo rapito un neonato scambiandolo per un involto di buoni del Tesoro, ne era rimasta conquistata al punto da cambiar vita: fatta donazione all'asilo cittadino dei suoi proventi criminosi, si era dedicata all'attività di balia.

«Mi permetta di contraddirla, signorina Volpi» era intervenuto Liberto Daverio-Moneta, stimatissimo esperto di economia, «la sua storia è certo interessante, ma la notizia dell'anno è quella del magnate Gelisio Neprotti, non vi è dubbio in proposito». E qui ricordò ai presenti come il menzionato finanziere, di avidità leggendaria, avesse donato ogni suo avere, fino all'ultimo soldo, al pio convitto degli orfanelli dopo essere stato risparmiato dal crollo della Borsa. «Le rammento, signorina, che qui si allude al crollo dell' "edificio" della Borsa: Neprotti uscì alle macerie miracolosamente illeso».

«Bah! Sciocchezze, quisquilie»: la voce tonante di Porfirio Lapalla, redattore sportivo, si intromise senza complimenti. «Con tutto il rispetto per le vostre rapinatrici e per i vostri ricconi, la notizia dell'anno - che dico?, del secolo - riguarda Lallo 'Strafulmine' Gimenti, l'attaccante della Fulgor-Liberata».

«Perché mai?» domandò Elettra.

«'Strafulmine', centrattacco di rango, per tutta la stagione è stato perseguitato dalla cattiva sorte. Pali, traverse, zolle, pozzanghere, rimbalzi irregolari: tutto sembrava frapporsi tra lui e il "goal". Poi, domenica scorsa…»

«Ha fatto "goal"?» azzardò Daverio-Moneta.

«Sì» confermò Lapalla.

«Non mi sembra granché, come storia» obiettava Elettra.

«Davvero? Anche se, quando ha fatto "goal", 'Strafulmine' non era in campo?»

«Come è possibile?»

«Era appena stato sostituito e stava dirigendosi negli spogliatoi, quando uno smisurato tiro scoccato da un compagno di squadra lo ha colpito sulla collottola».

«Dunque?»

«Non ci crederete, ma una straordinaria serie di carambole, rimpalli, deviazioni, effetti rotatori, scivolate e bizzarri rotolamenti ha fatto in modo che la palla finisse in rete».

«Divertente, ma non la fine del mondo».

«Aspettate! Lallo stava per esultare per il "goal" ritrovato, quando si è accorto di un guaio».

«Sarebbe a dire?»

«Il pallone s'era infilato nella porta sbagliata: 'Strafulmine' ha fatto "autogoal"!»

Risero tutti e fu proprio in quel momento che Rosito Lignardi, veterano caporedattore de "La nostra voce", si lasciò sfuggire uno sbadiglio formato gigante.

«Sonno, Lignardi?» s'informò, ironico, Lapalla.

«Mah, insomma…»

«Annoiato?»

Rosito alzò le spalle. Non aveva bisogno né di confermare né di smentire. Tutti sapevano che, per sorprenderlo, ci sarebbe voluto ben altro: a memoria di giornalista, mai notizia era riuscita a provocare in lui una visibile reazione di stupore. Eppure, in una carriera ormai più che ventennale, ne aveva viste e sentite di tutti i colori: storie da far accapponare la pelle e da far rotolare dalle risate, da commuovere agenti di assicurazioni e da incuriosire ghiri in letargo. Niente da fare: in redazione era celebre la smorfia scettica con cui accoglieva ogni avvenimento che l'entusiasmo dei novizi interpretava invece come una notizia interessante.

«Che cosa gli hai portato?» chiedeva il Redattore A.

«Il caso di un uomo che ha smarrito il portafoglio con del contante» rispondeva il Redattore B.

«E con ciò?»

«Gli è stato restituito il contante, non il portafogli».

«Rosito, che cosa ha detto?»

Il Redattore B a questo punto riproduceva l'immutabile smorfia con cui Lignardi esprimeva supremo disinteresse per ogni incidente dell'umana esperienza. Figurarsi se, a sentir parlare di balie rapinatrici, nababbi miracolati e calciatori iellati, avrebbe potuto concedere qualcosa più di un solenne sbadiglio: ancora doveva nascere il redattore al quale avrebbe riconosciuto di aver scovato una bella notizia...

Quella sera, aveva una ragione in più per sentirsi intorpidito: si era scolato quattro "grog" uno dopo l'altro. «A scopo terapeutico», avrebbe potuto spiegare, perché avvertiva l'insorgere di un raffreddore di testa. Nondimeno, l'effetto frastornante dell'alcol gli aveva provocato una sensazione di pesantezza alle palpebre così come a un'area più intima, per alleggerire la quale decise di far visita al bagno.

«Si è fatto tardi» rifletté specchiandosi alla toilette del "Prima pagina": «Sarà il caso di augurare la buonanotte (titolo, detto per inciso, della sua rubrica preferita) e andarsene a dormire».

Lasciò tosto il bagno per riguadagnare il salone del bar e, non fosse stato Rosito Lignardi, avrebbe potuto sorprendersi: il locale era deserto. Sedie ribaltate sui tavoli, balcone sgombrato, luci spente.

Scrollò la testa: che gente, andarsene mentre un collega è al bagno! Neppure un «buon Natale, Rosito» o un «auguri, Lignardi». Brillava, in particolare, l'assenza di Nicodemo, da cui si sarebbe aspettato un saluto, erogato se non altro al fine di sollecitare una mancia natalizia.

«Mancia risparmiata» stabilì Rosito allungando le mani all'appendiabiti dove, però, non trovò altro che il logoro grembiule del barista.

«Il cappotto l'avevo» mormorò: «Avrò pure bevuto, ma ricordo benissimo. Dove sarà finito?»

Gli ci volle giusto un secondo per formulare un'ipotesi: «Scherzi da idioti».

Forse offesi dalla sua ostinata mancanza di entusiasmo, i colleghi dovevano aver pensato di giocargli un tiro, nascondendo il cappotto. Già immaginava il ghigno di Lapalla: «Almeno questo lo sorprenderà». Elettra, «quella vipera», si era senz'altro accodata, ed entrambi, per coinvolgere Liberto nel malaffare, non avevano certo dovuto far troppi sforzi.

«Ragazzacci» brontolò tra sé. «Gliela farò pagare».

Ma intanto era senza cappotto: contingenza seccante visto che, fuori, in strada, lo scintillio del selciato, coperto da una patina di ghiaccio, testimoniava di temperature polari.

Rosito ispezionò il locale, nel caso i colleghi avessero deciso di nascondere il cappotto proprio sotto il suo naso. Non trovò nulla. Affacciandosi in strada, notò che le finestre de "La nostra voce" erano illuminate.

«Eccoli, i bricconi» commentò di malumore: ora gli sarebbe toccato salire in redazione per recuperare il cappotto e, con ogni probabilità, sottomettersi ai lazzi di circostanza.

«E va bene, è Natale. Facciamoli contenti».

Attraversata la strada di corsa, senz'altro guadagnò l'ingresso del palazzo: i suoi passi rimbombarono nell'androne. Salì in fretta la scala e, spalancata la grande porta a vetri, entrò in redazione.

Un altro, chiunque altro, sarebbe rimasto a bocca aperta; alcuni, più emotivi, avrebbero addirittura urlato; un Lord inglese, addestrato fin dalla più tenera età a contenere ogni emozione, non avrebbe potuto rinunciare a un sonoro "ohibò": Rosito Lignardi si limitò a trovar rifugio dietro una colonna.

Davanti a lui, come nulla fosse, era passato un pastorello.

Proprio un pastorello: chi avesse voluto dubitare della veste logora, imbastita con vecchi stracci, dei sandali polverosi e del lungo bastone che stringeva in pugno, avrebbe trovato conferma della sua identità nell'agnello vivo che portava sulle spalle.

A suo agio in redazione, il pastorello transitò a un passo da Rosito per dirigersi alla scrivania dove lo aspettava un pastore più anziano il quale, per buona misura, aveva assicurato alla sedia il legaccio necessario a impedire la libera circolazione di un montone.

«Ecco le quotazioni di Borsa» annunciò il pastorello al pastore anziano. «Salgono gli ovini, stabili i bovini. Turbolenze per i suini. Ancora non ha chiuso la Borsa dell'avicoltura».

«Poco male» rispose il pastore anziano, «incomincia con il passare in tipografia quello che hai. Forza, ormai manca poco alla chiusura».

«Quale chiusura?» si domandò Rosito.

L'indomani era il giorno di Natale, una delle poche, sacrosante vacanze della stampa: nessun quotidiano sarebbe stato in edicola. Certo non un quotidiano confezionato da due pastori.

«E neppure da un ciabattino e da un arrotino» rifletté Rosito, non appena ebbe notato che, in redazione, sostavano anche due esemplari dei menzionati artigiani i quali, senza peraltro interrompere i loro affari (uno cuciva una tomaia, l'altro teneva la mola in movimento) discutevano di impaginazione come redattori esperti.

«Non so, mio caro, non so» diceva il ciabattino, «personalmente trovo che per la pagina del lavoro questo studio dedicato al consumo delle scarpe su terreni diversi - asfalto, acciottolato, terra battuta, porfido e cemento - sia molto interessante».

«Non ne dubito, esimio collega» ribatteva l'arrotino, «e tuttavia mi permetto di sottoporti il saggio del professor Lametta, "I vantaggi di una buona affilatura", quale valida alternativa».

«Sai che ti dico?» disse il ciabattino. «Facciamo decidere al caporedattore Bovi».

A questa uscita, entrambi si alzarono per dirigersi, da buoni amici, all'ufficio dei caporedattori, situato sul fondo dello stanzone. Rosito li seguì saltando di colonna in colonna.

Il ciabattino bussò e una voce profonda, che invero avrebbe potuto essere scambiata per un muggito, dall'interno rispose:

«Avanti».

Non appena la porta fu aperta, Rosito poté scorgere, installato dietro la scrivania, un uomo di eccezionali dimensioni, sorta di gigante il cui collo taurino tendeva il colletto della camicia fino all'inverosimile. «Bovi», lo aveva chiamato il ciabattino? Certo la fisionomia del gigante ricordava un esemplare della nobile razza bovina.

Qualunque fosse il suo aspetto, il caporedattore, sotto lo sguardo interessato di Rosito, discusse con ciabattino e arrotino i vantaggi e gli svantaggi delle loro proposte, riuscendo a dirimere la questione con professionalità. «Si tratta di un'edizione straordinaria, ricordate?» raccomandò prima di congedarli. «Nella titolazione teniamo sempre presente una certa misura».

Rosito si chiese di quale misura parlasse perché davvero, in quella redazione particolare, di sobrietà pareva circolarne pochina, ma intanto, pur senza arrivare ad ammetterlo con se stesso, si divertiva a osservarne il lavoro: forse lo avevano contagiato il buonumore e lo spirito collaborativo degli improbabili redattori.

Cosa dire, per esempio, della giovane lavandaia che gli passò accanto sfiorandolo?

Rosa di guancia e paffuta, aveva avuto l'incarico, spiegò lei stessa a un pifferaio, di «seguire la moda» e, nel confezionare la pagina, ci metteva tutto l'impegno possibile.

«L'idea» diceva accalorandosi, «sarebbe di raccogliere tutte le novità più "chic" dell'anno: dal sandalo indispensabile per le serate nel deserto torrido, al "foulard" perfetto per le passeggiate su un pascolo ventoso».

«Eh? Brava, bene, fai così» borbottò il pifferaio, un poco distratto, impegnato com'era nella stesura di un articolo che, Rosito si sporse per accertarsene, recensiva con benevolenza un concerto di zufoli.

Lignardi sorrise tra sé, riconoscendo nel pifferaio la febbrile concentrazione tipica dei giornalisti ancora immersi nel "pezzo" a pochi minuti dalla chiusura. Non poteva sbagliarsi: per quanto composta da pastori, ciabattini, pifferai, arrotini e lavandaie (ma c'erano anche un mugnaio, un'impagliatrice e un fabbro con tanto di incudine), era questa una redazione come tutte le altre e, con l'avvicinarsi del termine ultimo per la consegna alla rotativa, l'atmosfera diventava tesa e ansiosa, ma anche palpitante e vivifica.

Quante volte Rosito aveva vissuto gli stessi momenti! Sempre con la sua aria imperturbabile, beninteso, eppure anche lui ne era stato parte integrante. Ora, ad assistervi dall'esterno, quella frenesia gli sembrava mille volte più attraente, tonica, vitale.

Tra i redattori s'accese una discussione. Ancora non era pronta la sezione di cronaca politica eppure, così Rosito apprese origliando, non mancava certo una notizia interessante: pareva fosse in programma, nel giro di pochi giorni, la visita informale di tre sovrani stranieri.

La redazione unì le forze e, in breve, fu in grado di consegnare alla tipografia una pagina ben confezionata, introdotta da un titolo fantasioso che faceva riferimento, chissà perché, a una stella cometa.

«Bene!» si compiacque il caporedattore Bovi: nell'ora del lavoro più intenso aveva lasciato l'ufficio per buttarsi nella mischia. «Anche questa è fatta». Si guardava intorno: «Dov'è finito Nello?» chiedeva. «Nello? Fatti vedere!»

«Arrivo!»

Lignardi a stento trattenne una risata.

«Nello», come lo aveva chiamato Bovi, era un secondo caporedattore il cui tono di voce - strozzato e prolungato insieme - lo condannava, insieme al volto allungato e alla dentatura equina, a una palese somiglianza con l'aristocratica classe degli asini.

«Ah, bene. Eccoti qua» muggì Bovi. «Direi che siamo a buon punto». Gonfiò il poderoso torace: «Non resta che la prima pagina».

«Di quella» gli ricordò Nello, «dovremo parlarne con il direttore».

«Forza, allora: andiamoci subito» replicò Bovi.

Ma fu solo dopo aver esaurito una serie di convenevoli («Prima tu, devoto Nello»; «Non mi permetterei mai, pio Bovi») che i due si decisero a bussare alla porta del direttore.

Rosito era curioso come non mai. O meglio, era curioso per la prima volta in vita sua. Zampettò fino alla colonna più prossima all'ufficio del direttore per essere certo di non perdersi la scena.

Bovi e Nello, ottenuto il permesso di entrare, si affacciarono all'ufficio con deferenza toccante. Solleciti, andarono a piazzarsi, uno per lato, accanto alla scrivania.

Da molti anni Rosito Lignardi lavorava a "La nostra voce" ed essendo piuttosto attento ai dettagli sapeva riconoscere il direttore senza esitazioni: costui esibiva baffoni a manubrio, amava indossare panciotti fantasia, fumava sigari lunghi mezzo metro e si chiamava Guasco Girardini. Inoltre, era solito rivolgersi ai caporedattori con delicati vezzeggiativi quali "incapace" e "parassita".

Nessuna di queste caratteristiche sembrava appartenere al direttore che Rosito vide installato nell'ufficio. Prima di tutto, sembrava molto inesperto: era addirittura sbarbato. Osservandolo, capì perché.

Era un neonato.

Incredibile! Questa visione di un direttore appena venuto al mondo dischiuse nell'animo di Rosito Lignardi, anchilosato da anni di immutabile scetticismo, una sensazione a lui del tutto sconosciuta.

Se solo avesse avuto la prontezza di chiedere in giro, molti gli avrebbero potuto assicurare che si trattava di stupore.

 

* * *

Il signor Bargilli sorrise e, rilasciato il buon Nicodemo, così concluse il suo racconto:

 

Un'altra dose di meraviglia attendeva il nostro Rosito perché, pur così giovane, il direttore di quell'edizione sempre più straordinaria sembrava sapere il fatto suo.

Ascoltate le proposte per la prima pagina presentate da Bovi e Nello, reclinò il capo e sul volto gli si dipinse un'espressione luminosa.

«Cari amici» disse, «ora vi illustrerò la mia idea»: anche la sua voce era luminosa. Si aggiustò sulla poltrona: così piccolo, rischiava ogni momento di scivolar giù.

«In prima pagina, vorrei una grande fotografia e un semplice titolo». Sorrise: «Per la precisione, vorrei una "mia" fotografia».

«E il titolo?» domandarono all'unisono Bovi e Nello.

«Eccolo: "Sono nato"».

«Soltanto questo? "Sono nato"?»

«Proprio così. Mi pare una bella notizia, no?»

Sorrise di nuovo e Rosito Lignardi, ormai al colmo della sorpresa, dimenticato perfino il cappotto, dovette ammettere che questo giovanissimo direttore aveva ragione.

Era davvero una bella notizia.

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