Cultura e Spettacoli
Giovedì 06 Gennaio 2011
Celli: "Avete talento?
allora lasciate l'Italia"
E' il drastico consiglio che il celebre manager consegna al suo nuovo libro, un aspro pamphlet contro il familismo dilagante. "Valgono i cognomi - dice in un'intervista a La Provincia - gli appoggi e tutto l'insieme delle pratiche antitetiche alla meritocrazia...".
«Figlio mio, lascia questo paese». Era il novembre 2009 e Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss «Guido Carli» (l'università di Confindustria), sulle colonne di "Repubblica" lanciava questo urlo di dolore. A quasi un anno di distanza, esce ora il libro "La generazione tradita"(Mondadori) che ripropone il tema in modo più pacato, ma non meno preoccupato.
Celli, perché questo Paese «non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio», come lei scrive?
È una sensazione che deriva da ciò che di cui mi occupo maggiormente per la Luis, cioè accompagnare i nostri giovani laureati nel loro primo approccio con il mondo del lavoro. E le garantisco che le sensazioni che mi "ritornano" sono deprimenti: quasi mai i nostri ragazzi sono valutati per la loro preparazione, per quello che conoscono e sanno fare. Valgono i cognomi, gli appoggi e tutto quell'insieme di pratiche che conosciamo bene, e che - come sappiamo altrettanto bene - sono antitetiche alla "meritocrazia".
L'Italia che lei descrive è un Paese dove ben pochi occupano il loro posto per merito e nessuno paga per gli errori commessi: perché? Per quali ragioni prevalgono queste dinamiche?
Per spiegarlo dovremmo andare a fondo nella nel nostro passato - come cerco di fare, almeno in parte, nel libro - analizzando la storia patria e le vicende politiche che l'hanno accompagnata. Non ci sono meccanismi di ricambio, perché le persone di potere non "escono" mai; continuano eternamente ad azionare le leve le hanno portate in quei posti, muovendosi dentro la ragnatela delle relazioni che, in Italia, è il potere. Lei mi chiede perché? Perché prevale il familismo, ed è così dove le istituzioni sono deboli.
Appunto. Perché? O se preferisce dove non lo sono, a suo avviso?
Nei paesi di cultura protestante, perché vige l'idea - condivisa a tutti i livelli della società - che le regole devono essere rispettate. E che sia un dovere farlo per un elementare senso di giustizia che anima la più parte dei cittadini.
Tutta colpa del Cattolicesimo, quindi?
Beh, detto con le sue parole sembra una caricatura. Difficile negare però che nella nostra cultura «oggi si pecca e domani ci si confessa». Pronti a peccare di nuovo. C'è una tendenza al compromesso di basso profilo, presente nel senso comune e nella mentalità corrente; un lassismo etico-morale che altri paesi non conoscono. Poi magari sono meno creativi, come i tedeschi, ma ciò che perdono lo recuperano con il rigore che li contraddistingue.
Lei invita suo figlio ad andare «dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati»: dove quindi? Paesi anglosassoni o di cultura tedesca?
Non fa molta differenza, a mio avviso, per le ragioni che ho già spiegato.
Benedetta Tobagi, nella risposta alla sua lettera, le ha rimproverato un'indebita prevalenza del "privato": la fuga sarebbe un atto di resa e di ripiegamento, ingeneroso nei confronti del proprio Paese: cosa risponde?
È discutibile che le cose stiano veramente così: per esempio, il fatto di scegliere di vivere all'estero ha costi umani tali da rendere risibile la tesi che si possa trattare di un ripiegamento sul proprio privato! Al contrario: è una scelta piena di idealismo! Ma il punto non è neppure questo: personalmente ritengo che non ci siano le condizioni per incidere sulla realtà del nostro Paese. Io non le vedo. Benedetta Tobagi la pensa diversamente, ed è per questo che si confronta.
La crisi che effetto sta producendo sui giovani?
Effetti molto negativi. Accentua enormemente il problema della transizione al lavoro, in un contesto normativo che è già di per sé molto povero di tutele. La crisi contribuisce a rigettare i giovani nella precarietà, da cui rischiano di non uscire mai. E la politica non solo non fa nulla per aiutarli, ma, rendendosi poco credibile, accentua la loro sensazione di disagio.
L'Italia è un Paese in declino?
Non cresce da molti anni, quindi lo è nei fatti. Bisognerebbe riuscire ad invertire il trend, facendo "sistema", come si usa dire. Ma siamo troppo individualisti anche solo per pensarlo.
Lei sembra molto pessimista. Se dovesse scoprire che suo figlio non ha seguito il suo suggerimento, ma come molti delle sua generazione è rimasto perché, in fondo, riesce a vedere il "bicchiere mezzo pieno", le dispiacerebbe?
Niente affatto. Le mie considerazioni sono cupe perché noi "padri" avremmo voluto dare una realtà diversa ai nostri figli e non ci siamo riusciti. Quindi sono soprattutto autocritico: questo per rispondere ad alcuni che mi hanno frainteso, pensando che "volessi tirarmi fuori" e non ammettere le mie responsabilità. Quanto a mio figlio ha già deciso di restare e - come padre - sono con lui anche in questa scelta. Al di là di questo, credo che lei abbia colto lo spirito della mia riflessione: quello di ragionare sulle condizioni di competitività del nostro Paese, ponendo l'attenzione sulla capacità di valorizzare le risorse umane.
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