Cultura e Spettacoli
Domenica 13 Febbraio 2011
La "Storia naturale"
fra regola e mirabilia
L'opera risponde a una sua profonda logica compositiva: la relazione di Franco Minonio a un importante convegno veneziano
"Naturalis historia" fu scritta da un amatore erudito per amatori non eruditi». Se di fronte ad un'opera così centrale nella tradizione antica ci si potesse disimpegnare con una frase ad effetto come questa, che è di Edward John Kenney, la partita intorno alla scientificità del testo pliniano sarebbe chiusa prima di cominciare. Anzi, alla domanda "Naturalis historia" è un'opera scientifica?», vi sarebbe pretesto, andando ben oltre, di rispondere con sarcasmo: «Ma non esiste una scienza romana»: come alcuni anni fa avrebbe fatto William H. Stahl, storico dell'enciclopedismo tardo antico, che dedicò un libro intitolato "La scienza romana" alla dimostrazione della sua inesistenza. Ruvida fin che si vuole, tale risposta paradossale, non meno di quella battuta tagliente, ha il merito di collocarci direttamente nel cuore del problema.
Si discute oggi se la "Naturalis historia" sia un'opera scientifica non perché i materiali, i principi classificatori, gli schemi argomentativi che essa presenta appaiano, come è inevitabile, biologia fantastica agli occhi delle moderne scienze naturali. Al contrario si discute oggi se essa sia un'opera scientifica perché appare paradigmatica di una tradizione, quella romana, alla quale si nega tuttora dignità di scienza. Eppure chi si scherma dietro a quel paradosso, o alla battuta di Kenney, rischia oggi di arrivare fuori tempo massimo. Per secoli, fino alla metà del '500, nessuno dubitò in Occidente che la "Naturalis historia" fosse un'opera di scienza. Fu a partire dal XVII secolo, quando cioè le ricerche di storia naturale, nell'ambito delle scienze della vita e della materia, presero tutt'altra direzione, che l'opera pliniana apparve un indigesto coacervo di assurdità. Messa ai margini dagli esponenti della nuova scienza, da allora fu lasciata alle cure dei filologi, per lo più in cerca di "exempla" di aberrazioni linguistiche. E un approccio analitico, decontestualizzante, centrato su singoli passi, è prevalso anche nella maggior parte di un secolo pur prodigo di riscoperte quale il '900: frammentata in una quantità di specializzazioni, l'opera si è trovata decostruita e ridotta ad una giustapposizione di schede senza rapporti tra di loro, cosa che ha accentuato l'immagine di disordine compositivo (pur reale) e la sua presunta identità di conglomerato di rozzi materiali.
Da un paio di decenni, tuttavia, ha preso forma un diverso orientamento critico nel quale la "Naturalis historia", nella sua sterminata e quasi disperante estensione, è tuttavia sottoposta ad uno studio d'insieme, finalmente attento alla struttura profonda, alla logica compositiva. Contestualmente, sulla base di un rinnovamento degli studi, di nuove edizioni, di nuovi commenti, appare destinata al tramonto anche l'idea che, presa in blocco, la produzione scientifica romana, tra il II secolo a.C. e il VI d.C., per intenderci tra Catone e Boezio, costituisca solo una replica degradata di motivi della scienza greca del III secolo a.C.
Anche se nella dedicatoria (praef. 12) al principe Tito della Naturalis historia, Plinio afferma di avere escluso dalla sua opera il racconto dei cosiddetti "mirabilia", cioè di cose sorprendenti, eventi abnormi e imprevedibili: «I libri che ti dedico non permettono il racconto di fatti meravigliosi o di avvenimenti variati ("casus mirabiles vel eventus varios")», per generale ammissione questo è invece il tratto più vistoso del suo lavoro: la prima cosa che verrebbe in mente per escludere la natura scientifica dell'opera pliniana è la parte che in essa giocano gli "admiranda", eventi che spiccano per la loro irregolarità. Così, il punto essenziale da chiarire è il loro ruolo nel pensiero di Plinio, in quella che si può chiamare la sua disposizione metodologica. Che potremmo riassumere così. In natura non esiste regolarità assoluta. L'eccezionale è prodotto dalla "Natura artifex" allo stesso modo di tutto ciò che in essa si ripete con una prevalente regolarità: la loro differenza, però, consiste nel fatto che quanto non è inquadrabile entro una tendenziale normalità, rischia di andar perduto, ogniqualvolta si verifichi. L'eccezionale, allora, ha bisogno di essere preservato dall'oblio, deve essere conservato, che è precisamente quanto Plinio fa. Ma non è tutto. Plinio si sarebbe chiesto, e nei fatti si chiede: cosa significa una eccezione alla norma, è rivelatrice di qualcosa? Se dell'irregolare, per definizione, non si dà norma, il finalismo dell'autore spinge a conferire significato all'infrazione della norma. Del resto, per Plinio, il naturalista non spiega, ma interpreta: così eventi irregolari, imprevedibili, abnormi rivelano, per lui, l'interno funzionamento del mondo naturale assai più di ciò che è regolare, prevedibile, normale. Visti così, i "mirabilia" pliniani, non appaiono il sottoprodotto di un deficit di spirito scientifico. L'attenzione, allora, deve spostarsi sull'idea di natura: quella di cui Plinio (7.1-2) si chiede, assai prima di Leopardi, se sia madre o matrigna ("parens an tristior noverca"), quella che, secondo una tradizione lucreziano-vitruviana, Plinio concepisce come "Natura artifex", visto che (2.3) parla del mondo come "opus naturae", quella di cui dichiara (37.60) di voler indagare la "voluntas" e non la "ratio", quella il cui corpo sterminato è violato ogni giorno dalle estrazioni minerarie che ne svellono lo scheletro, esponendo l'umanità a pagarne il fio con crolli e terremoti. E questo organicismo, questa lettura vitalistica del mondo, che è natura (praef. 13): «descrivo la natura, cioè la vita» ("rerum natura, hoc est vita, narratur"), ove si esclude che essa sia un mero complesso di leggi fisico-meccaniche, è l'aspetto più sorprendente dell'opera pliniana, ma anche quello scientificamente più ambiguo. Pensare ad una natura vivente equivale per Plinio a pensare ad una natura divina: Mary Beagon ("Roman Nature", Oxford, Clarendon Press, 1992) ha disegnato lo sfondo, e le implicazioni scientifiche, di tale visione pliniana, che ha molto in comune con le prevalenti concezioni stoiche, e con l'ipotesi che il mondo sia preordinato per beneficare l'umanità (ma il citato proemio al libro VII contiene una radicale critica, poi non sviluppata, del teleologismo).
E se la relazione dell'uomo con la natura ed il divino, che è natura, è vista idealmente come una potenziale alleanza, su questo punto l'intera opera pliniana è attraversata da oscillazioni. Plinio non condanna ogni interferenza dell'uomo nella natura, ad esempio non condanna la cultura nella sua totalità (lo ha messo bene in chiaro rispetto all'arte Sorcha Carey, "Pliny's Catalogue of Culture. Art and Empire in the Natural History", Oxford, Oxford University Press, 2003): è il lusso a costituire un uso perverso della natura, già per il suo stesso intento di eguagliare, rivaleggiando con essa, la sua varietà e potenza. Esso pare legittimare ogni violazione dell'ordine naturale, come dimostra la dissennata ricerca dell'oro, per il quale perforiamo le montagne, che la natura ha create non in funzione dell'uomo, ma per sé, «perché fungessero da compagini della terra destinate a rinsaldarne le viscere».
Nel suo libro "Le projet encyclopédique de Pline l'Ancien", Rome, École Française de Rome, 2002, Valéry Naas ha preso le mosse dal quel passo (36. 101) nel quale, comparando le meraviglie del mondo e quelle di Roma, Plinio afferma che, se si riunissero queste seconde, esse formerebbero «un altro mondo in un solo luogo», "mundus alius in uno loco". A partire da questa espressione, Naas si è proposta una rilettura del progetto enciclopedico di Plinio, che non è un semplice inventario, ed è assai più che una compilazione: la pliniana "Naturalis historia", per Naas, al netto di tutte le contraddizioni sul piano tematico e compositivo, è un'opera per più di un aspetto originale, che combina testimonianza diretta e fonti, anche di seconda e terza mano: fonti che egli si sforza di gerarchizzare, e quando ne produce una pluralità intorno ad un medesimo argomento, tale moltiplicazione di punti di vista testimonia di una ricerca della verità. Una valutazione avvalorata, peraltro, dalle conclusioni del libro di John F. Healy (ID., "Pliny the Elder on Science and Technology", Oxford, Oxford University Press, 1999), il lavoro più completo ed esaustivo sulla dimensione scientifico-tecnologica dell'opera pliniana, secondo il quale l'identità scientifica di Plinio non può essere revocata anche quando Plinio «registra le sue osservazioni senza comprendere i principi implicati in certi fenomeni, o stati della materia».
Franco Minonzio
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