Cultura e Spettacoli
Sabato 19 Febbraio 2011
Sotto quella cupola
c'è il cuore di Como
Ricordi, leggende e sorprese all'ombra del Duomo: Guarracino le racconta nella sua guida al Lario
Ma è il Duomo, con l'adiacente Broletto, il cuore civile e religioso di Como, con l'imponenza della sua mole e il fascino della sua storia, che reca i segni visibili del tempo nella stratificazione degli stili, dal tardo-gotico della facciata, alle linee rinascimentali dell'abside, fino alla cupola settecentesca, assieme alla ricchezza del suo corredo artistico, con nomi di pittori e scultori di straordinaria suggestione (Luini, Morazzone, Ferrari, Rodari), il cui fascino è accresciuto anche dallo sfondo razionalista su cui si colloca, ossia la Casa del Fascio del Terragni. Con quella particolarità che lo fa unico, la presenza cioè sulla facciata, ai lati del portale, delle statue dei due Plinii (il Vecchio e il Giovane), due pagani a guardia di un tempio cristiano, a testimonianza di una continuità tra antico e moderno, oltre che di fierezza e orgoglio per le patrie glorie.
L'"epicentro" della città, insomma, e non solo dal punto di vista architettonico: lo ha definito così Luciano Caramel, uno dei critici d'arte più noti, a suo tempo curatore di una Biennale d'Arte veneziana: ciò a cui tutto converge, «dal carnevale, alle celebrazioni liturgiche, alla manifestazioni politiche e sociali».
«Como è impensabile senza il suo Duomo: senza la festa della facciata che adorna il piccolo salotto della piazza; senza il profilo dolce e severo della cupola dello Juvara, la quale sovrasta e ingentilisce le case che sorgono intorno; senza i suoi portali graziosissimi; senza la sua penombra angusta e raccolta», ha detto con solenne amabilità mons. Alessandro Maggiolini, che della città è stato autorevole Presule per oltre un ventennio. Qualche anno fa (1992), un libretto, "Variazioni sul Duomo", ha raccolto queste e altre innumerevoli e prestigiose voci di scrittori e artisti, comaschi di origine o di adorazione (Mario Biondi, Angelo Maugeri, Bruno Munari, Giuseppe Pontiggia, Andrea Vitali, tra i tanti), a celebrare la sua restituzione all'ammirazione di tutti, fedeli e non, all'indomani di un restauro: ricordi ed emozioni al cospetto del gigante di pietra, ritornato nel pieno del suo splendore a giganteggiare sul paesaggio e nel cuore dei Comaschi. «Trifore snelle pari a giovinette/pinnacoli puntati verso il cielo/dritti e sicuri come la speranza. /E intorno pietre che col tempo/son divenute quasi palpitanti/come se dentro vi scorresse il sangue»: è Carla Porta Musa, la poetessa che documenta, dall'alto di un secolare e felice longevità (è nata all'inizio del secolo passato!), la persistenza e vitalità di un siffatto emblema di fede e di arte. Pietre «palpitanti» e parlanti, «come se dentro vi scorresse il sangue»: i Comaschi ancora lo vedono così, il loro Duomo, «il più bell'esempio di gotico lombardo» (Bruno Perlasca). Forme di luce, emblemi di un passato di fede e di speranza, proteso verso un cielo, in cui ognuno poteva e ancora può riconoscersi: «la luce era immensa,/immensa e forte,/nel cielo della cupola.../scalava le rampe dei pinnacoli,/ metteva ogni cuore al suo posto» (Angelo Maugeri).
Lo vedono ancora così, come presenza viva e familiare, ancorchè austera, che parla e ammonisce e sotto l'occhio del qualche si è imparato proprio tutto, a cominciare dai primi passi, prima incerti e infantili poi via via più rapidi e sicuri. I passi della vita, «movimenti dello spirito» come «movimenti di macchina», dice Paolo Lipari, regista. È per questo che molti degli scrittori convitati all'"Omaggio al Duomo" hanno collocato i loro ricordi sulla scena dell'infanzia? Giuseppe Pontiggia, Mario Biondi, Federico Roncoroni, Andrea Vitali, ognuno alla sua maniera ha rievocato proprio le immagini infantili e adolescenziali del proprio approccio alla Chiesa e alla piazza che giusto dinanzi a essa si apre. Pontiggia, l'autore di tanti libri del nostro immaginario narrativo contemporaneo, si rifà al «primo ricordo» trasmessogli dall'infanzia, ossia sulla mitica rana scolpita nel Quattrocento sulla facciata, «forse a testimonianza di un innalzamento memorabile del lago»: «Da bambino, rapito, non avevo visto che l'animale, cui del resto mi avevano guidato le mani provvide dei parenti». Non diversamente Giovanni Belgrano, pedagogista, rievoca anche lui questo stesso dettaglio monumentale con l'aggiunta di una nota grandguignolesca: «Avevo sette anni ed ero appena arrivato a Como dalla Liguria, quando alle Elementari di via Perti ho sentito, per la prima volta, parlare della rana del Duomo. L'informazione, sbagliata, favoleggiava di un truce lanzichenecco che per disprezzo aveva mozzato la testa della rana scolpita sulla porta settentrionale del Duomo. Spesso mi capitava di rivivere la scena: il soldataccio che con l'enorme spada tagliava la testa della rana...». Il romanziere Mario Biondi ritorna alla prima memoria della vista del Duomo, «in occasione della cresima», al profumo di cera mai più sentito», alla «mano paffuta del vescovo», prima di dare spazio all'ombra della sua protettiva sagoma memoriale ad altri meno rituali ricordi di crescita e di iniziazione alla vita. Un ricordo dell'infanzia campeggia anche nel testo di Federico Roncoroni, poeta e saggista, ed è attivato da due foto: la prima, che ritrae un tenerissimo quadretto familiare, con il padre che tiene per mano il suo bambino, con alle spalle la mole incombente dell'edificio («davanti alla facciata mi sento schiacciato dalla sua verticalità e provo il bisogno di andare il più indietro possibile, per vederla tutta, fino in cima»); la seconda, sempre con gli stessi personaggi, il bambino in braccio al suo babbo e ancora il Duomo ma finalmente «a misura d'uomo» (per fortuna , «il fotografo l'ha decapitato»). Non diversamente dagli altri, anche il medico-scrittore Andrea Vitali, autore di molti romanzi di successo, riferisce un ricordo d'infanzia, quando, portato con ingenuo candore ad associare l'idea stessa del Duomo di Milano, aveva scoperto con sorpresa e sgomento la grandezza di Como, dal momento che anch'essa possedeva il suo Duomo («Ogni grande città ha il suo»).
Vincenzo Guarracino
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