Cultura e Spettacoli
Lunedì 18 Aprile 2011
"La sola terapia valida?
Imaparare ad ascoltare"
Xavier Emanuelli, fondatore di Medici senza frontiere, raggiunto a Parigi, racconta il significato del suo testamento spirituale in libreria in questi giorni
Nel suo ultimo libro, di cui esce in questi giorni la traduzione italiana (Sulla soglia dell'eternità, 144 pag., 12 euro), Xavier Emmanuelli, fondatore di «Medici senza frontiere», racconta la sua vita dedicata alla medicina umanitaria d'urgenza. Lo abbiamo incontrato a Parigi, dove vive.
Dottor Emmanuelli ci sveli il suo segreto: come ha fatto lei, nella morte, nella malattia e nella catastrofe, a non perdere mai di vista l'uomo?
Nel mio passaggio sulla terra, mi sono trovato in un certo posto a un certo momento: spesso mi sono sentito oggetto più che soggetto delle mie azioni: una mano mi guidava. La fede, il talento e la formazione di medico, e il desiderio di ognuno di noi, nel nostro profondo, di essere un eroe e un salvatore: chi non ha sognato da bambino di essere un eroe? Ma la realtà, è che gli eroi non raccontano: gli eroi restano sul campo. Chi torna non è un eroe. Perdere di vista l'uomo è il grande rischio della nostra epoca. Per un medico, addestrato riparare il corpo, a vederlo come un meccanismo pur perfezionatissimo, o per chi si sente investito di una missione, il rischio è forte e diabolico. Ancora, ognuno di noi fonda la propria identità nel rapporto con l'altro, con gli altri: l'altro - simile a me, mai identico - mi interpella e mi fa paura, è il mio specchio. Il coraggio, lo sdegno, la rabbia. L'amore, di cui nessun essere, nessuno, è privo. Cosa vuol dire "ama il prossimo tuo come te stesso"? Dubito che sia veramente possibile. Una volta, in un campo di rifugiati in Thailandia, vidi arrivare su un convoglio una ragazzina ferita a morte, il ventre aperto. Non c'era più nulla da fare. Mi rivolsi ad altri feriti. Un collega invece la prese fra le braccia e la accompagnò nel trapasso. Un'altra volta, ancora semplice medico condotto, fui chiamato in campagna. Quando me ne andai il marito della donna sofferente, contadino burbero un po' brusco, in silenzio colse un fiore e me lo diede. Per attraversare l'Umanità e restare uomini - ogni singolo uomo, ogni individuo distinto, che si confronta, a modo suo, con la malattia e con la morte che alla fine comunque l'avrà vinta - credo si debba soprattutto stare attenti a che ogni nostra azione abbia un senso.
Nel suo libro lei critica la rappresentazione virtuale del dolore al cinema, nei film. In cosa fallisce questa forma moderna di catarsi?
Il teatro, la letteratura, provocano un'emozione artificiale, ma lasciano a chi legge o assiste lo spazio per la rappresentazione. Il cinema impone delle immagini, ci imprigiona in una data rappresentazione che condiziona, a sua volta, la realtà. La mia critica non è assoluta. Dalla notte dei tempi, tipi e prototipi narrativi sono necessari per raccontare una storia, trasmettere un messaggio. Ma attenzione a non perdere di vista gli uomini.
E i documentari, o il giornalismo? Che cosa scrivere, cosa pubblicare?
Due risposte. La prima è semplice: l'informazione deve essere utile e deve avere, come dicevo prima, un senso. La seconda storia è una parabola moderna. Negli anni settanta il governo dell'Uganda creò un parco naturale nella regione occupata dagli Iks, cui fu destinato un altro territorio. Lo sradicamento e il conseguente abbandono delle pratiche tradizionali ebbero un effetto devastante e la piccola comunità ne fu destrutturata fino ad aberrazioni indicibili. Un'équipe di antropologi seguì la vicenda, e tornata in Europa, preparò un documentario: un documento unico di una forza potenzialmente immensa. Ebbene questo documentario non fu mai diffuso. L'équipe aveva assistito alla catastrofe umana senza muovere un dito, come stesse osservando una colonia di formiche.
Ventitré anni con «Medici senza frontiere», poi, dalla fondazione del «Samu Social Internazional», il suo impegno è rivolto agli emarginati...
«Samu Social International» si occupa degli emarginati e dei senza tetto di Francia e nel mondo. Oggi sono soprattutto impegnato sul fronte dei bambini di strada nelle grandi metropoli del terzo mondo: bande di piccoli abbandonati a se stessi che si riorganizzano in una microsocietà alternativa per sopravvivere. È quello che abbiamo chiamato "sovradattamento paradossale": più l'individuo si adatta ai codici della strada, meno è adattabile o riadattabile in società. Reintegrarsi significa allora in un certo senso e preliminarmente regredire… Un fenomeno che abbiamo studiato, per esempio, nelle strade di Dakar.
Tante esperienze del dolore e della malattia in tempi e spazi diversi hanno cambiato la sua percezione dei piccoli malanni quotidiani?
Mio padre era medico di famiglia. Quando qualcuno lo chiamava, andava. Lui mi ha insegnato l'ascolto, e grazie a lui so che la sola vera azione terapeutica, ovunque e sempre, è quella tradizionale. Un medico al capezzale di un uomo che soffre.
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