Cultura e Spettacoli
Lunedì 09 Maggio 2011
La Primavera araba
fiorisce su Facebook
Blog e network sociali hanno dimostrato di essere preziosi strumenti per riportare la democrazia in regimi totalitari
I media tradizionali hanno infatti sottolineato con molta enfasi il ruolo giocato da strumenti come Facebook, YouTube o la blogosfera nel consentire da un lato la circolazione delle idee, dall'altro la messa a punto organizzativa delle proteste che hanno portato a grandi cambiamenti, e ancora ne fanno presagire.
Per la verità, queste rivoluzioni non si stanno limitando a riattivare il dibattito, ma sembrano orientarlo in modo nuovo. Finora, infatti, la dimensione politica della rete è stata letta o come risorsa civica nelle democrazie tradizionali o - viceversa - come risorsa testimoniale nei regimi autoritari o totalitari, in cui la speranza democratica appare lontana e inattuabile in tempi brevi. Nel caso delle democrazie tradizionali - come vedremo tra poco in dettaglio - i social media costituiscono essenzialmente un ambiente di circolazione delle idee che va a sovrapporsi e integrarsi con altri ambienti legittimati (i media tradizionali, l'industria culturale in genere, le associazioni, i circoli, e così via), portando nuove opportunità e arricchendo con linfa nuova una certa stanchezza partecipativa. Nel caso dei Paesi autoritari o totalitari, invece, essi creano una sorta di circolazione culturale clandestina che si oppone alla cultura e all'informazione ufficiali, generando controcultura e controinformazione. Se si vuole paragonare a qualcosa di già conosciuto questo tipo di circolazione, bisogna richiamare alla memoria l'esperienza dei samizdat, i fogli sotterranei che nel blocco sovietico garantirono a milioni di persone che non si riconoscevano nell'ideologia al potere flussi di informazione e cultura alternativi e spesso preziosi. Una differenza importante fra i social media e i samizdat può essere costituita dalla relativa facilità con cui le tecnologie di rete consentono ai dissidenti (siano essi cinesi, iraniani o cubani, per non fare che qualche esempio) di testimoniare anche all'estero - magari per il tramite di grandi media tradizionali - la condizione propria e dei propri Paesi: si tratta di quella che Manuel Castells ha chiamato la dimensione globale dei grandi media individuali di massa (mass self communication).
Le vicende tunisine, egiziane, libiche, yemenite e del Bahrein (con infiltrazioni in Marocco, riprese di attività di opposizione pubblica in Iran, eccetera) ci mostrano invece un fatto nuovo: l'efficacia politica di questi mezzi, la loro evoluzione da strumenti democratici per così dire di testimonianza a strumenti propriamente rivoluzionari, in grado di contribuire alla trasformazione in senso (almeno potenzialmente) democratico di Paesi governati da regimi autoritari o totalitari.
Sembra - e anzi per certi versi lo è certamente - una buona notizia, che ci autorizza a legittimare finalmente questi strumenti come agenti di democratizzazione e di mutamento storico. E tuttavia, molto rimane ancora da fare per comprendere la complessità dei rapporti fra questi media partecipativi e le democrazie.
Una storia con due volti
La dimensione storica dello sviluppo dei social media può essere letta da due punti di vista. Uno - più ovvio - è quello tecnologico e industriale.
In quest'ottica essi sono figli del web 2.0, ossia di quella rinascita di internet dopo l'esplosione della bolla speculativa del 2000/2001 che ha avuto per protagonisti prima Google e YouTube, poi i servizi di messaggeria (come Windows Messenger) e infine i veri e propri social network, come Facebook e i blog. Le caratteristiche di questi media sono note: multimedialità, facilità d'uso, possibilità per l'utente di inserire contenuti e di renderli visibili, costruzione di una reputazione online che non dipende dall'appartenenza a grandi marchi di comunicazione, ma si ottiene con il successo quotidiano all'interno della propria rete. L'incrocio fra questi nuovi media e le tecnologie mobili (smart phone e tablet come Ipad, per esempio) ha reso possibile la diffusione quasi globale di una specie di rete soffice e avvolgente, che consente agli individui di essere praticamente sempre connessi con altri individui, dentro a gruppi o a "comunità" più o meno stabili e radicate.
Se però affrontiamo la questione da un diverso punto di vista, quello dell'impatto politico, la storia dei social media comincia molto prima, con altre forme più tradizionali di mezzi di comunicazione e/o ambienti di discussione. Nel ricostruire la nascita della sfera pubblica nell'Europa settecentesca, Jürgen Habermas sottolinea il ruolo dei giornali, dei caffè e dei salotti, in cui la borghesia aveva modo di mettere a fuoco le proprie richieste di una nuova partecipazione politica dopo la stagione degli assolutismi. Si può dire che - in quella vera e propria fucina delle democrazie che fu l'illuminismo raccontato dallo studioso tedesco - si misero le basi per un modello di discussione collettiva fondato sulla qualità delle argomentazioni, il rispetto del ruolo degli interlocutori, la portata politica delle discussioni "private" nei luoghi e nei media, lo scambio continuo fra autore e lettore, o fra parlante e ascoltatore.
Il Novecento, caratterizzato da un lato dal ruolo delle grandi masse nella politica, dall'altro dal trionfo dei grandi media istantanei "centralizzati" come la radio e la televisione, ha fatto passare un po' in secondo piano il ruolo della discussione nei piccoli gruppi e della sua forza trasformatrice di idee e azioni. Ciò è avvenuto probabilmente perché i grandi partiti hanno messo a punto strumenti ad hoc per la trasmissione - sia top down, sia bottom up - delle ideologie attraverso le sezioni, i circoli, le proprie testate, le attività culturali di vario genere.
Ma, esauritasi la loro capacità di operare questa funzione di animazione e orientamento dell'opinione pubblica, è stato proprio lo sviluppo di internet a riportare in vita la primigenia funzione dei salotti e dei caffè. Non a caso, in Italia, lo sviluppo delle reti civiche, promosse dalle pubbliche amministrazioni e frequentate da cittadini desiderosi di dibattere e partecipare alla vita pubblica, comincia a manifestarsi con successo negli anni Ottanta, durante la crisi latente dei partiti tradizionali, ed esplode negli anni Novanta, dopo la scossa di Tangentopoli e gli sconvolgimenti del panorama politico che ne segue.
Tuttavia, come dicevamo, è il web 2.0 a rendere diffuse e visibili le potenzialità politiche della rete come ritorno a un modello partecipativo, in perfetta concomitanza con una tendenza del tutto opposta nelle democrazie occidentali, dove invece sembra prevalere il modello di quella che il politologo Bernard Manin ha definito Audience Democracy, basata sulla sostanziale inattività del cittadino, che si limita a esercitare il diritto di delega alle élite politiche (l'Italia, con la sua legge elettorale e la struttura della costruzione del consenso prevalentemente fondata sulla televisione, ne costituisce un esempio illuminante).
Si può dire insomma che i social media - paradossalmente - incarnano la contraddizione del ritorno di un ideale di sfera pubblica in un contesto storico di partecipazione debole e di perdita di energia delle democrazie occidentali.
La dimensione politica dei social network
Ed eccoci alla valutazione del reale impatto dei social media sulla politica.
In primo luogo, occorre tenere presente che la dimensione strettamente partecipativa è solo uno degli aspetti della socialità. Non a caso viene spesso evocato, a proposito della relazionalità in rete, il concetto simmeliano di socievolezza, ossia del piacere estetico della conversazione disinteressata, del pettegolezzo come arte del salotto, della sincera curiosità per i fatti altrui: tutti elementi di per sé non negativi, ma comunque estranei alla vera e "seria" partecipazione politica, elemento saliente della democrazia ideale.
Al di là di questo, comunque, anche per quanto concerne la vera e propria dimensione politica, è bene non sottovalutare alcuni rischi molto concreti dei social network, che ne accompagnano il funzionamento quotidiano.
Il primo di questi rischi consiste nella polarizzazione delle opinioni.
È già stato osservato che nei forum (basta seguire quelli dei nostri quotidiani online) è presente una forte tendenza al cosiddetto blaming, ossia all'insulto sistematico delle persone portatrici di opinioni diverse dalle proprie. È ovviamente una forma di polarizzazione che conferma ciascuno dei partecipanti alla discussione nelle proprie appartenenze ideologiche e anche nei propri pregiudizi. Nella blogosfera e nei social network la polarizzazione può prendere altre vie, per esempio con la frequentazione/lettura/commento solo dei siti e dei commentatori che si eleggono come opinion leader, o almeno come co-rappresentanti delle proprie convinzioni. Un modello del genere è evidentemente funzionale allo sfogo, all'identificazione, al rafforzamento delle opinioni, ma assai poco al dibattito politico vero e proprio, in cui il confronto deve avvenire sulla qualità delle argomentazioni e non sulla personalizzazione e la chiusura. In questo, il ruolo dei social media rischia di divergere assai poco da quello identificativo e rassicurante delle classiche testate informative (richiamato dalla celebre battuta anglosassone: "Il mio giornale la pensa come me").
Il secondo rischio, certamente più grave e senz'altro più specifico, è la dipendenza dei social media dai grandi media tradizionali e di mainstream per l'approvvigionamento di notizie. Un caso esemplare è l'informazione su Twitter, che a parte occasioni fortemente partecipative come le manifestazioni pubbliche, in cui gli stessi partecipanti diventano testimoni istantanei di ciò che accade, consiste perlopiù nella rimessa in circolo di articoli di giornale, di commenti a trasmissioni televisive, e così via. In un suo articolo di qualche mese fa sul "New Yorker", dal significativo titolo Small Change. Why the revolution will not be twittered, Malcolm Gladwell ha ricordato un episodio, che mostra anche l'altra faccia di questa medaglia: la curiosità con cui i giornalisti occidentali indagarono le ultime elezioni iraniane e le proteste che seguirono nel Paese attraverso i tweet in inglese dedicati a ciò che stava accadendo. Si dimenticò allora - sostiene Gladwell - che i concreti attori della protesta, per comunicare fra loro, avrebbero usato certamente il farsi, non l'inglese, e che quindi ciò che i giornalisti considerarono fonte primaria rischiava di essere già una eco occidentale dei fatti iraniani.
Il terzo rischio riguarda i rapporti con il potere, che sono piuttosto complessi e ambigui. Di solito si interpreta l'attitudine delle dittature a utilizzare la risorsa tecnica di far tacere l'intera rete bloccando i server o stipulando accordi specifici con le aziende titolari delle piattaforme (è successo e succede in Cina, Iran, Libia, e così via) come una conferma a contrario del potenziale democratico dei social network. Il ragionamento è più o meno il seguente: se il potere si affanna a impedire la circolazione delle idee via rete significa che la rete è davvero un pericolo per i regimi. È parzialmente vero, ma la repressione è comunque repressione, ovunque si eserciti, e semmai il fatto che si applichi anche ai social media dimostra che questi ultimi possono tutt'al più essere uno - non certo l'unico - fra gli strumenti utilizzabili per le forze di opposizione. Inoltre, al di là della semplice censura tecnologica, esistono altri modi per il potere autoritario di rovesciare l'uso dei media partecipativi contro gli oppositori. Una modalità tipica è utilizzare la viralità di queste reti di persone e informazioni per produrre disinformazione, facendo circolare notizie false in modo incontrollato (una cronaca recente riferisce di una falsa convocazione di oppositori via Facebook, ordita dalla polizia sudanese, con susseguente arresto dei manifestanti). Un'altra modalità repressiva consiste nell'utilizzare le informazioni presenti messe a disposizione dei social media sugli utenti per individuare questi ultimi, seguirne le attività, e così via. Da questo punto di vista la stessa natura di internet consente una forte tracciabilità dei dati relativi alla privacy di ciascuno, e non è un caso che i Paesi democratici si dotino di una legislazione che protegge il cittadino da questi rischi: una legislazione naturalmente assente nei Paesi totalitari o autoritari.
La funzione vitale dei social network nelle democrazie
Polarizzazione, infiltrabilità, fragilità: tre rischi seri per i social media come strumento politico. Ha ancora un senso allora interpretarli come fattore positivo nelle democrazie o per i processi di democratizzazione?
A mio parere sì, a patto di essere consapevoli dei loro limiti.
Proviamo a ricordare - a suffragio di questa mia posizione - i fattori di innovazione che essi hanno comportato nel dibattito e nell'azione pubblica.
Prima di tutto, lo sviluppo della blogosfera, dei social network e in generale del web 2.0 ha ridotto il ruolo di "colli di bottiglia" tradizionalmente svolto dai media tradizionali. Questi ultimi possono certo ancora filtrare le notizie per il grande pubblico, ma la circolazione alternativa dei social media minaccia la loro parzialità almeno in due modi. Da un lato perché raggiunge in modo selettivo esattamente quei cittadini che sfuggono all'informazione mainstream (in Italia, essenzialmente, la televisione) per curiosità intellettuale o sospetto programmatico: questi cittadini sono di solito i più attivi e capaci di mobilitare, agendo come opinion leader, e l'informazione che li raggiunge ha dunque un'efficacia particolare. Dall'altro lato, le notizie e i commenti presenti sui social media sono fonti che i media tradizionali non possono rifiutare per l'elementare ragione della concorrenza giornalistica, all'interno della quale è difficile e rischioso tacere una notizia che potrebbe rivelarsi fondata ed essere eventualmente pubblicata da un'altra testata. Ne consegue che l'informazione mainstream tende a fare da sponda - entro una certa misura - alla circolazione di informazione orizzontale sulla rete.
In secondo luogo, i social media, in quanto mezzi orizzontali, garantiscono la miglior integrazione possibile fra circolazione delle idee e riuscita organizzativa di vere e proprie azioni politiche (manifestazioni, boicottaggi, scelte elettorali): lo si è visto nelle già citate rivoluzioni arabe, ma lo si vede anche nella crescita esponenziale del successo di manifestazioni "non istituzionali" (come in Italia la protesta Se non ora, quando? di domenica 13 febbraio 2011 in molte piazze italiane), prive cioè di radicamento in strutture organizzate come i partiti o i sindacati. Queste manifestazioni utilizzano la rete e le sue potenzialità relazionali e di circolazione delle idee per costruire forme organizzative leggere, che si rivelano oggi particolarmente funzionali e coerenti con la sensibilità diffusa.
Infine, in quanto fortemente propensi alla costruzione di identità e di appartenenza ideale, i social media sono strumenti assai forti in mano a movimenti fondati su qualche tipo di identità e di progetto esplicito. Ed eccoci tornare all'esempio delle rivoluzioni arabe, esplose in Paesi in cui la metà della popolazione è sotto i trent'anni e condivide le stesse frustrazioni e gli stessi sentimenti di rifiuto di regimi ereditati dalle generazioni precedenti e incapaci di garantire ai giovani un futuro.
In sintesi, possiamo dire che - in quanto mezzi di distribuzione di informazione e conoscenza orientati alla partecipazione dal basso - i social media possono essere eccellenti strumenti di democrazia dove vi siano le condizioni per una buona politica. La quale buona politica si fonda sì sulla qualità delle argomentazioni e delle informazioni circolanti (che sono essenziali per poter compiere scelte insieme fondate e condivise), ma non in modo esclusivo: senza senso delle istituzioni, coscienza civile e disponibilità partecipativa la democrazia tace o addirittura muore, e allora nemmeno i social media potrebbero salvarla
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