Cultura e Spettacoli
Domenica 22 Maggio 2011
La filosofa e don Milani
Riflessioni sulla libertà
In esclusiva, per i lettori de "La Provincia", un estratto dall'introduzione di Roberta De Monticelli - pensatrice morale di grande finezza - al volume di scritti del priore di Barbiana, ripubblicati da Chiarelettere, in uscita in libreria.
«E poiché sei venuto al mondo, sei stato allevato ed educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi avi?» Questo dicono le leggi a Socrate, secondo un celeberrimo passo del platonico Critone. Più di un padre e una madre sono per Socrate le leggi, senza le quali non esiste Città dove ragione si oppone a ragione, ma solo la ragione del più forte, la guerra o il dispotismo. Perciò Socrate accetta la morte e non fugge, pur sapendo che la condanna è ingiusta. Antigone, nella più celebre tragedia di Sofocle, disobbedisce invece alla legge di Tebe e di Creonte: la giovane donna è «fuorilegge, devota» a una legge non scritta e «misteriosamente eterna», che a quella positiva si oppone.
Nelle figure di Socrate e di Antigone si incarnano i modi dell'obbedienza e della disobbedienza in quanto entrambi espressioni della libertà. Perché c'è obbedienza e obbedienza. Obbedire a una legge cui si consente - e non a un uomo che si pone al di sopra di essa - è esercizio di libertà come autonomia, sovranità su se stessi. E don Milani si rivolge ai ragazzi della sua scuola come ai «sovrani di domani». Come ai cittadini che saranno, il cui esercizio di libertà è anche esprimere la volontà di leggi più giuste, e dunque anche obiettare, accettando socraticamente le conseguenze penali, a quelle ingiuste. Invece l'obbedienza che «non è più una virtù», se mai lo è stata, non è un modo della libertà, ma del suo contrario: dell'asservimento, prigionia della mente e servitù del cuore. Può essere l'obbedienza a un uomo e non a una norma legittima, o può essere l'obbedienza cieca, o indifferente. Servitù è il vero nome di quell'obbedienza che non è virtù. Questo è il cuore del pensiero di don Lorenzo Milani, cittadino e cristiano, che si esprime in questi testi pubblicati nel 1965 (A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?>, ndr) in difesa dei primi obiettori di coscienza alla coscrizione militare e in risposta all'accusa di apologia di reato, per la quale don Milani subì un processo.
L'orrore della servitù volontaria è il punto di fusione – al calor bianco – fra il demone di Socrate, che libera dalla prigionia della mente, e la divinità nell'uomo di Cristo, figlio e non servo, che libera dalla sudditanza del cuore. Don Milani lo sa: lo dice nella Lettera ai Giudici, la sua fiammante, socratica apologia, che ogni ragazzo dovrebbe leggere appena si sveglia al dubbio e all'esistenza. Il Critone e l'Apologia di Socrate, insieme con i quattro Vangeli: ecco le prime due fonti di quella «tecnica di amore costruttivo per la legge» di cui il maestro di Barbiana si fa apprendista, insieme con i suoi ragazzi. Notate la delicatezza e insieme la densità di questa espressione, «tecnica di amore costruttivo». Tecnica perché l'amore per la cosa pubblica si esplica nella virtù del cittadino, che è innanzitutto rispetto per il valore della legalità, e quindi per i suoi delicati meccanismi, fra cui le leggi e le sanzioni. Non si esercita la virtù civile solo con lo slancio del cuore. Si esercita, ad esempio, nel «violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede».
I giovani che accettano la prigione conoscono quanto Socrate il valore della legalità. Amore costruttivo perché «chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri». La legge: la legge civile, la legge della Città terrena, sia ben chiaro. E non conosco fra gli eredi di Agostino (se non forse per certe pagine di Rosmini) altro esempio altrettanto limpido e intenso di riconoscimento del valore autonomo, tutto umano, della legalità in quanto tecnica di autolimitazione del potere. Don Milani è evidentemente estraneo al pensiero (di radice agostiniana) che identifica la Città terrena con la civitas diaboli, e consente ai rappresentanti umani della Città celeste ogni compromesso o addirittura compromissione con quel volto diabolico della politica che pure nell'intimo disprezza. Non conosco in epoca recente altra così grande eccezione al sottinteso disprezzo cattolico per la cosa pubblica e le virtù della cittadinanza, che ha forgiato nei secoli la nostra minorità civile e la nostra indifferenza all'etica pubblica.
È importante capirlo: non è la «legge divina» che suggerisce a don Milani il suo «costruttivo amore» per la legalità repubblicana, o se lo è, lo è solo in quanto questa legge divina non decreta affatto il primato, sulla legge dello Stato, di un'altra Sovranità, di una Chiesa, di un Libro o di una Dottrina, ma solo il primato della coscienza individuale; e con questa limpida affermazione, come nella difesa di quei testimoni solitari che erano gli obiettori, sfugge anche alla banalizzazione di chi lo classifica come catto-comunista.
«La dottrina del primato della coscienza sulla legge dello Stato» è certamente, scrive con candore don Milani, «dottrina di tutta la Chiesa». Era il 1965. E quello fu anche l'anno della Dignitatis Humanae, che in coda al Concilio Vaticano II dichiarava: «Gli imperativi della legge divina l'uomo li coglie e li riconosce attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente... Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza». Ecco: quell'anno fu pensata fino in fondo, e dimostrata possibile, la radicale laicità di un cattolicesimo che veramente avesse voluto rinnovarsi al fuoco dello spirito, o meglio del Vangelo. Se questo pensiero avesse vinto, la storia del nostro paese sarebbe stata diversa, e – per l'influenza della Chiesa – anche la storia del mondo. Perciò è importante capire fino in fondo questo pensiero, che fu invece sconfitto, e poi calunniato, e poi sepolto. Che la legge divina consista qui nel liberare da ogni nome di Dio la legge terrena, quella che istituisce e protegge il pubblico confronto delle volontà e delle ragioni; che la legge divina stessa induca il sacerdote a ritirarsi, in primo luogo, per lasciar posto al maestro, che deve risvegliare la libertà e la coscienza critica dei futuri cittadini: perché questo è tanto importante? (...) È davvero tempo di rileggere don Milani.
(© Chiarelettere)
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