Cultura e Spettacoli
Martedì 24 Maggio 2011
Nell'opera di Aimo Cerati
c'è l'impronta dell'arte
Al Museo della seta le opere di un autentico genio del "frottage", che mantenne un profilo naif solo in apparenza. Guarda il video.
Era un uomo dal tratto semplice e cordiale, Luigi Aimo Cerati (1932-2009), ma tutt'altro che sprovveduto di spirito, di intelligenza, di sensibilità. Con il suo sorriso aperto e la modestia di comportamento, sempre pronto a fare un passo indietro, era conscio delle sue possibilità inventive e sicuro nelle scelte. Amava la natura, il mondo, la vita: e per questo, quando decise di soddisfare la sua vocazione di artista, preferì servirsi di materiali non costruiti in laboratorio ma trovati dovunque si lavorassero prodotti naturali, il legno, i tessuti, il metallo. Meglio se fossero stati materiali non pregiati e nemmeno integri, ma già segnati dalla mano dell'uomo, dalla fatica degli artigiani, persino sottratti alle scorie industriali.
Un uomo semplice, che s'era formato da sé una cultura estetica e una destrezza manuale in grado di trarne un linguaggio soltanto suo. "Naïf", certo, come lo definisce il titolo dell'antologica allestita nelle nuove sale del Museo didattico della seta (via Castelnuovo 9, fino al 29 luglio), però addestrato, cosciente delle caratteristiche dei mezzi adottati, dotato di una pazienza esecutiva e di una tenacia che sono qualità tipiche dell'artista vero. Non si arrendeva al freddo, alle intemperie, alle condizioni difficili, stremanti, in cui spesso si trovava a dover operare. Lo sosteneva l'entusiasmo di sentirsi creatore del nuovo, di dar corpo alle sue idee generose di pacifista, di amante della sincerità, di ammiratore della bellezza, di cultore dell'empito coloristico, delle effusioni cromatiche che s'ispirano all'incantesimo degli arcobaleni.
Un uomo semplice che pensava in grande. Non solo per le dimensioni delle sue opere, che dovevano avvolgere idealmente il riguardante, fornirgli un pretesto per dimenticare la realtà quotidiana e rifugiarsi in un'altra realtà, quella dell'astrazione mentale ma senza abbandonare il luogo dal quale era partito, nella sua concretezza: attento ad alzarsi da terra senza perdere il contatto con essa. Senza perderla di vista abbandonandosi alle fantasticherie più ardite, restituendone l'essenza, le caratteristiche intrinseche anche tattili. Raggiunse l'apice di questa sua capacità di volo radente sulle cose nell'usare la tecnica divenuta per lui congeniale, il "frottage", nel catturare i particolari di ciò che si sfiora senza davvero scorgere, la superficie su cui si cammina. Non solo il pavimento di una stanza, ma il selciato di una strada, di una piazza, di un angolo qualunque della città. L'arte assurta al ruolo di rispecchiamento dell'ambiente urbano, nei suoi aspetti più reconditi. Con il frottage, che s'avvale dello sfregamento di materie duttili su oggetti solidi per ricavarne l'impronta, avvicinava agli occhi l'immagine, la forma di ciò che calpestiamo, la scopriva e nel momento stesso di svelarne l'identità la trasformava in un "doppio" della realtà che aveva tutta l'apparenza di un fantasma surreale. Quante volte abbiamo camminato sopra una tela stesa su un tombino, un marciapiede, una pavimentazione qualsiasi senza accorgerci che era il supporto di un "rasoterra" (così li chiamava) del Cerati!
Questa mostra comunque ha il pregio di presentare un'efficace sintesi dell'intero percorso ideativo dell'artista, che egli ha documentato con scrupolosità in una serie sorprendente di faldoni in cui segnava la genesi di ogni opera, accompagnata da scritti, considerazioni, appunti, notizie, ritagli di giornale, lettere. Un vero e proprio diario. Prima dei "frottages" di lino, cotone, seta, sono esposte le sculture realizzate a partire dal 1976 per lo più in un legno scuro come il palissandro indiano, dall'esteriore durezza ma duttile nella sostanza, presi nei magazzini di marmisti perché usati per interporsi fra le lastre in lavorazione, già segnati dalle seghe ("feriti", diceva lui). Nelle fessure, nei tagli prodotti dalle fresature inseriva strati di colore, li faceva diventare totem, mosaici, pannelli da appendere, tastiere di uno pseudostrumento musicale. Oppure se ne serviva come telai per bucherellarli e tramarvi sopra intrecci di nastri colorati, in lana o metallo.
A queste sculture dall'aspetto talvolta austero talaltra giocoso, a seconda dell'orchestrazione cromatica, dal 1982 si aggiungono i cosiddetti "alberi della pace" in segmenti di metallo. Gli venne infatti l'idea di assemblare dei moduli precostituiti per macchine o utensili nell'anno in cui si stava aggravando fino ad esplodere la guerra fredda fra Russia e America. A ciascuna di quelle fronde metalliche, ordinate e composte come degli alberelli, Cerati dava il nome di uno Stato: all'inizio, 220 quali erano i Paesi dell'Urss, poi tutti gli altri nel mondo, i popoli esistenti sulla crosta terrestre. Tutti uniti per coesistere senza confliggere, tutti uguali, in grado di comprendersi, di accettarsi. Tutti finalmente in pace. E se nella maniera di atteggiarsi, di reggersi, i moduli metallici somigliano alle argute "sculture da viaggio" di Bruno Munari, ben diversa è la loro destinazione, non ludica né ironicamente ammiccante, ma coerente con le strutture arboree naturali e orientata a fornire un preciso messaggio di armonia universale che l'ottimismo utopico dell'artista riteneva praticabile malgrado ciò che accade di continuo, le valanghe di odio che scardinano i rapporti fra le genti.
Seguono i libri da non leggere dove le pagine sono in corteccia d'albero, i legni traforati e variegati con quella che catalogò come "trasmissione del colore" giustificandone la presenza in rivoli incanalati e condotti in varie direzioni, e infine i prediletti "frottages". Una particolare serie di questi ultimi è nata proprio nei locali del Museo della Seta, il giorno in cui Cerati scoprì l'esistenza delle vecchie planches per la stampa sulla seta. Gli stamponi, provenienti per lo più dalla ditta Francis Clivio e non più messi in funzione dal 1926, quando irruppe sul mercato internazionale dell'industria serica il più moderno e pratico metodo della fotoincisione, suggerirono un modo nuovo per realizzare "frottages" che non comportava lo sforzo di chinarsi per stendere i drappi di tessuto, premerli, lavorarli sul posto in condizioni spesso disagevoli. Gli stamponi, in legno di pero, erano maneggevoli, potevano essere spostati nel silenzioso laboratorio che l'artista aveva allestito a Casciago (Varese), premuti su strisce di tessuto serico e quindi ripassati con sovrapposizioni di linee al disegno originario e diffusi giochi di colore.
Nel 1991 vennero realizzate 54 pitture sulla traccia lasciata dagli stamponi, scelti fra i 700 conservati nel Museo comasco, arrivando a prolungare l'effetto della semplice impressione su tela moltiplicando i disegni e allungando i supporti. L'esito, valendosi dei formati diversi, con strisce coloratissime di tessuto appese come antichi teleri, è di particolare intensità decorativa, armoniosi nelle composizioni e dotati di sorprendente grazia formale, di una leggerezza davvero accattivante. Si direbbe addirittura che promani da loro una carica sottile di musicalità.
Sono le prerogative dell'arte semplice, spontanea ma ricca di potenzialità espressive di Luigi Aimo Cerati, che tendeva a condividere con gli altri, a insegnare ai giovani, improvvisandosi "maestro di bottega" alla maniera antica quando le scolaresche in visita al Museo gli chiedevano come realizzasse le sue opere. Allora, sprigionando da tutti i pori la gioia che lo animava sempre, non lesinava spiegazioni ed esempi della tecnica in cui era diventato un agile specialista. Lui, nipote di ombrellai e figlio di un ambulante, per guadagnarsi il necessario sostentamento non aveva abbandonato il mestiere di famiglia, ma nella gratuità dell'esercizio artistico esprimeva il meglio di se stesso, veicolava la sua personale visione del mondo. E ogni volta che qualcuno gradiva il suo lavoro si sentiva umanamente compreso. L'arte era questo, un mezzo di comunicazione, non un mero guadagno. Nella sua scala di valori, una stretta di mano, un complimento contava più di un compenso in denaro. Si meravigliò, un giorno, venendo a sapere che una sua opera era stata venduta durante una seduta di una celebre casa d'aste internazionali. Chissà chi l'avrà comprata, si chiese. E aggiunse «speriamo che l'apprezzi», concludendo «preferirei comunque che finisse in casa di un amico».
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