Cultura e Spettacoli
Martedì 14 Giugno 2011
Poesia, i 90 anni di Orelli:
"Grande Montale, Benigni..."
Il più famoso e celebrato autore ticinese dialoga con "La Provincia", esprimendo giudizi sui grandi della letteratura italiana, da Dante a Saba e ricordando aneddoti su Contini, "filologo secondo solo a Leopardi", che fu suo insegnante all'Università.
Non v'è dubbio che la voce poetica e critica di Giorgio Orelli sia dotata di forza tale da superare i confini elvetici e giungere anche in Italia, apprezzata da critici e colleghi. E non a caso il suo più grande insegnante, Gianfranco Contini, non ha esitato a definirlo «toscano del Ticino»; c'è chi invece ha accostato la sua poetica del quotidiano a quella tratteggiata nel 1952 da Luciano Anceschi e battezzata "Linea lombarda". Il poeta, 90 anni compiuti lo scorso 25 maggio, ha pubblicato raccolte importanti come "Sinopie", "Spiracoli", "Il collo dell'anitra" e saggi su Foscolo, Manzoni e Montale. Dopo gli studi a Friborgo, sotto l'egida di Gianfranco Contini, si è trasferito a Bellinzona dove ha insegnato per anni al Liceo Cantonale; ancora adesso vive lì con la moglie.
Orelli, che cosa ha significato per lei avere come insegnante Contini?
Al Liceo ho studiato dai monaci, in collegio; perché un tempo anche le famiglie non particolarmente cattoliche mandavano i figli lì, per questioni di praticità. Passare dal Liceo all'Università e trovarmi un professore come Contini è stato un bel salto! È stato il più grande filologo italiano dopo Leopardi. Ma a differenza di molti filologi Contini era anche provvisto di grande gusto. E questo è raro. Capita di parlare con filologi straordinari e di stupirsi dei vuoti incredibili che hanno quando si affronta il discorso poetico. Le faccio un esempio: Dante era dotato di grande gusto e intelligenza. Petrarca aveva un gusto raffinatissimo ma non era intelligente come Dante. Ecco, Contini aveva tutte e due le qualità. Avere un insegnante così, che a lezione ti spiega l'evoluzione della lingua italiana e poi fra una lezione e l'altra ti mostra una poesia inviatagli dall'amico Montale è una fortuna, capisce.
Umanamente com'era? Come si comportava con voi allievi?
Era un uomo molto generoso. Ricordo un aneddoto. Appena giunto a Friborgo incontrai Contini in una libreria e bevemmo una birra insieme. Lui aveva appena acquistato un'antologia della letteratura francese, un tomo bello grande. Un mattone, insomma. Io, con disinvoltura tipicamente giovanile, gli dissi: «Conosco quest'antologia. Sono sicuro professore che potrei aprirla a caso e leggere dei brani e lei riconoscerebbe l'autore». Lui mi rispose: «Non è detto, Orelli». Iniziammo il gioco; indovinò tutto. A un certo punto mi disse: «Ora tocca a lei, Orelli». Io gli chiesi di non umiliarmi così. Ma comunque accettai la sfida. Ebbene, scelse un brano di Rimbaud convinto che lo conoscessi. E infatti io indovinai. E il gioco finì lì. Ecco, lì si vede la signorilità di un uomo, che fa di tutto perché l'allievo non faccia brutta figura.
Torniamo alla complementarietà di gusto e intelligenza; non crede che l'eccessiva impostazione filologica degli studi in lettere stia togliendo fascino alla letteratura stessa?
Bisogna distinguere caso per caso. L'erudizione ci vuole; noi non possiamo formarci in questo studio senza questa conoscenza scientifica. Io però dico sempre che questo non basta. Un grande filologo come Michele Barbi affermò che più leggeva il "Fiore", meno ci sentiva il fare di Dante; vuol dire che la poesia non sapeva proprio dove stesse di casa, è una dichiarazione veramente incomprensibile. Questo è il gusto che viene meno, l'orecchio. L'organizzazione del campo dell'udito è capitale e spiega i vuoti incredibili di tutta la filologia e di tutta la critica italiana.
Il valore fonico e ritmico della poesia, appunto. Quanto c'è di conscio in questa creazione e quanto di inconscio?
La domanda è legittima e attesa. Ma la risposta non è così netta come la domanda; questo è un discorso mai finito e non verificabile. Alla base c'è la consapevolezza che più il poeta è bravo, più sa quel che fa. La poesia ha comunque una notevole parte di mistero. In una poesia che io scrissi nel '52, un amico lesse delle influenze pascoliane; e io dovetti riconoscerle, ma non me ne ero accorto, prima. Mi capitò cosa analoga con Montale; a suo tempo scrissi un saggio sulla sua poesia che lui apprezzò molto. Mi scrisse una lettera entusiasta che ancora conservo. Lo andai a trovare a Milano e gli feci notare, in una poesia, degli echi leopardiani, e Montale mi disse: «Ma lei ha ragione!». O in Luzi, il «mentre», proviene da Clemente Rebora. Bisogna comunque stare attenti; ci sono anche i plagi.
Mi dica qual è il più grande poeta del Novecento.
È una domanda in cui è implicita una gerarchia non necessaria; chiedere quale sia il poeta più grande implica che ce ne siano di meno grandi... ma se mi devo proprio sbilanciare, dico Montale. Però questa risposta spiega i miei debiti verso di lui.
Di bravi poeti ce ne sono tanti nel Novecento, certo. Per esempio Saba è un altro grande...
Amo Saba. Gli portai le mie poesie a Milano e ne scelse alcune. Io gli dissi: «Lei ha scelto quelle che assomigliano di più alle sue». Non aveva la serenità oggettiva di Montale. A Saba piaceva quel che sapeva di Saba. Era così. Un narciso di qualità rara.
Cosa pensa di Benigni lettore di Dante?
Mi piace. Ha dalla sua il fatto di essere toscano e quindi di avere una dizione perfetta e allo stesso tempo naturale. Una sola cosa gli rimprovero: quella di recitare i canti a memoria. A volte sbaglia, dimentica una parola o una terzina intera. E io me ne accorgo!
Molto bella anche la scena della «Tigre e la neve» in cui recita «La pioggia nel pineto»...
Come testo, le dico, è sopravvalutato. Le rime sono scontate; D'Annunzio si è fatto prendere la mano dalla sonorità della lingua; è un esercizio virtuosistico.
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