Cultura e Spettacoli
Domenica 02 Ottobre 2011
I misteri di Bruegel
svelati da Collina
L'alchimia della "Caduta di Icaro" e le tre gambe del "Banchetto nuziale" - due capolavori del genio fiammingo - lasciano meravigliati per quanto sono enigmatici. Ecco come li racconta Giuliano Collina, tra i maggiori pittori italiani, nel primo appuntamento con il "Quadro del mese".
<+G_SQUARE><+G_TONDO>Con l'autunno vien voglia di … Bruegel.
Il grande pittore Pieter Bruegel, detto "il vecchio" per distinguerlo dal figlio omonimo, è il capostipite di una celebre famiglia di artisti.
Il suo anno di nascita è incerto, forse il 1525, e nemmeno è sicuro il luogo, forse la cittadina di Breda nei Paesi Bassi. Della sua vita d'uomo non sappiamo quasi nulla, della sua vita d'artista invece sappiamo molto anche perché, cosa assai rara in quel tempo, Bruegel usava firmare e datare le sue opere. La sua biografia è ricostruibile essenzialmente sui suoi quadri e sulla loro cronologia. Peter Bruegel visse poco più di quarant'anni, infatti nel 1569, e ne siamo certi, venne seppellito nella chiesa di Notre Dame de la Chapelle a Bruxelles.
Bruegel fu un artista operante in pieno Rinascimento, un contemporaneo o quasi di Tiziano, di Tintoretto e della grande scuola rinascimentale italiana, quella che ha dato al mondo tanti straordinari capolavori e che Bruegel doveva conoscere forse anche dal vero, certamente attraverso le tanto diffuse (a quel tempo) stampe calcografiche. Bruegel sapeva di quegli straordinari maestri, ma doveva anche avere chiara coscienza della sua tanto evidente diversità perché la sua pittura era agli antipodi. E tale dicotomia non può che farci oggi meditare perché in questo nostro mondo tutto uguale stiamo proprio perdendo la capacità di riconoscere e accettare le diversità, le specifiche qualità culturali: così, davanti all'opera di Bruegel, adattiamo la nostra radio ricevente, sintonizziamoci su quanto lui voleva trasmetterci, in umiltà e senza frapporre il filtro del nostro gusto, dei nostri desideri.
Pittura mediterranea e pittura nordica. Primavera estate al sud, autunno inverno al nord. Il mare, le spiagge, i bagni e il sole oppure la pioggia, la neve, il cielo rannuvolato, il freddo. Le grigliate di pesce o gli intingoli con polenta.
La polenta, quella così attentamente dipinta da Bruegel nel "Banchetto nuziale" (ben servita nei piatti allineati sulla barella trasportata da due inservienti): un quadro straordinario, ricco nel suo colore dominante, il giallo oro, quello appunto della polenta di granturco e della paglia del granaio dove il banchetto si svolge. È questo un dipinto celeberrimo, denso di notizie, di aneddoti, di annotazioni e anche di piccoli misteri, perché la sposa (per altro bruttissima) sembra sedere sola al tavolo degli sposi, forse il marito, come a quanto pare a quel tempo usava, sta con la servitù per mescere la birra o per servire agli invitati i piatti colmi e perché, ancora più misteriosamente, l'inserviente in giacca rossa davanti alla barella ha… tre piedi. Contateli, ma saranno sempre tre: due davanti e uno dietro (e non possono che essere tutti suoi). Io non so capacitarmene, non so farmene una ragione, a meno di pensare a una macroscopica svista dovuta a un procedere operativo a più mani, dove i collaboratori di Bruegel lavoravano a compartimenti senza la coscienza dell'assieme dell'opera. Una svista, che però non può essere sfuggita al Maestro e che forse lo ha così divertito fino ad indulgere alla voglia di scherzare con i suoi contemporanei e persino con noi.
Ma non sono tutti così evidenti i misteri nella pittura di Bruegel. Lui non ha solo dipinto rustiche storie, non solo balli sull'aia e cene di contadini, non sempre soltanto paesaggi agresti e il lavoro nei campi. La sua pittura sa anche andare molto al di là delle descrizioni del suo quotidiano, perché lui è anche figlio del suo tempo, di quel cinquecento che, almeno nei suoi ultimi decenni, viveva di esoterismi da iniziati, di streghe, di demoni e di magia, o, per lo meno, sempre di intriganti alchimie, di miti, di leggende, di storie antiche tramandate come vere. Forse bastano alcuni titoli: "Il misantropo", "La gazza sulla forca", "La torre di Babele", "Il ladro di nidi" e tra loro, e forse meglio di tutti, il "Paesaggio con la caduta di Icaro".
È questo un dipinto a olio su tavola di dimensioni medio-grandi (cm. 73,5x112). Su di esso si è a lungo dibattuto, persino sulla sua autografia e anche sulla sua datazione (facendolo rimbalzare tra le opere giovanili e quelle della maturità): certamente è stato un quadro anche criticamente scomodo. Eppure "La caduta di Icaro" non è solo uno dei più grandi dipinti di Bruegel, ma addirittura una delle più grandi opere della storia dell'arte tutta. L'inquietudine, il mistero che emanano da questo pezzo di legno dipinto abitano al di là della nostra esperienza, sembrano spingerci in un altrove dove il mito e la realtà, il tempo passato e quello presente convivono. Qualsiasi parola, qualsiasi esplicitazione del soggetto possono togliere qualcosa alla qualità dell'immagine, forse non se ne dovrebbe dire nulla, solo respirarne il profumo e tentare di definirne la struttura.
Il punto di vista del pittore e di noi che guardiamo sta un po' al di sopra di un pianoro ricurvo, abitato da un contadino intento con aratro e cavallo ad arare un breve campo già in buona parte solcato da profonde incisioni molto evidenti; più in basso, su un altro più ristretto terrazzamento, un pastore pascola le sue pecore, il pastore sembra all'improvviso sollevare lo sguardo verso il cielo, e non per caso. Poi la montagna precipita improvvisamente, giù verso il mare, dove in una rada cupa di acque verdi un vascello con le vele spiegate salpa verso il largo senza che nessuno dell'equipaggio si accorga che lì accanto Icaro è precipitato dal cielo: di lui si vedono solo le gambe scalcianti a fior d'acqua tra gli spruzzi. Da lì in avanti lo sguardo accelera verso l'immenso paesaggio, al largo della sponda tra isole, penisole e costiere giù in fondo fino e anche più in là dell'orizzonte appena un po' convesso così da aumentarne l'ampiezza.
Certo potrebbe bastare, ma Bruegel ha saputo anche metterci dell'altro. Io non amo mai parlare della luce in un'opera dipinta, mi sembra sempre di citare una qualità come tante e che da sola non basta (come quando si dice di una donna brutta che ha dei bei capelli), ma in questo dipinto davvero la luce esplode d'improvviso, invade lentamente il paesaggio, ma non fuga le ombre che continuano a inquietare gli angoli più remoti con le caratteristiche dell'ambigua, algida luminosità di un'eclissi.
Il pastore, il contadino, Icaro: la realtà e il mito intrecciati dentro uno spazio, un luogo impossibile, irrespirabile. Un aratore in primo piano, grande, e invece Icaro lontano, giù nel profondo dell'acqua, così piccolo da essere persino difficile da identificare; il lavoro dell'aratro e l'avventura nelle vele spiegate del vascello così da suggerire misteri dalle complesse interpretazioni alchemiche, ma non importa se gli interrogativi di fronte a questo capolavoro rimangono, perché per capire quest'opera non serve svelarne i segreti, infatti riusciamo a comprenderla appieno proprio quando ne accettiamo la sua cripticità.
Mi piace credere che quando Bruegel terminò quest'opera si sia stupito anche lui di ciò che aveva dipinto, forse non se l'aspettava così, forse non ci sperava, perché quasi sempre ciò che il pittore immagina di poter fare è più grande e più bello del risultato finale. Eppure qualche volta, come nel caso di questo nordico Icaro, può essere che nasca nel mondo un capolavoro persino migliore delle intenzioni del suo autore.
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