Leopardi e la felicità
Altro che pessimismo

L'italianista Vincenzo Guarracino ha tenuto una conferenza, all'Istituto italiano di cultura a Madrid su un tema pochissimo esplorato del grande recanatese: la sua gioia di scrivere poesie. In Spagna sono in uscita i "Canti" leopardiani nell'edizione di Guarracino.

di Vincenzo Guarracino

«Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch'io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch'io vivo. Passar le giornate senza accorgermene, parermi le ore cortissime, e maravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di passarle»: è da qui che conviene partire, da questa considerazione, inscritta in data 30 novembre 1828 nello "Zibaldone" (4417-18), per interrogarsi sul concetto di "felicità", che costituisce uno dei capisaldi del sistema letterario e morale di Leopardi, collegato al tema del "comporre", alla scrittura cioè nelle sue diverse forme (diaristica, filosofica, epistolare, poetica), in un periodo molto particolare della vita del poeta per condizioni esistenziali e scelte intellettuali. Cosa dice l'annotazione in questione e perché risulta particolarmente interessante?
Dice di una condizione psicologica davvero singolare e addirittura straordinaria, mai prima riscontrata con tale forza, e di un fervore creativo vissuto con un'intensità tale da sembrar fare dimenticare al poeta i suoi problemi di sempre, soprattutto quelli fisici. E insieme a ciò rivela anche il forte investimento sentimentale ed esistenziale che il poeta fa sul "comporre", sullo scrivere, come un'esperienza capace trasfigurare l'esperienza e di rinvigorire mente e cuore, offrendogli l'opportunità di "sviscerare a sangue freddo il suo carattere"(Zib., 14) oltre che di "speculare minutamente le viscere" di emozioni e sentimenti, come aveva detto nel "Diario del primo amore".
La grandezza della pagina leopardiana, di questa come di qualsiasi altra, soprattutto dello Zibaldone, è di aprire continuamente delle domande: di proporsi insomma a un'interpretazione continua, facendo della scrittura il luogo di un'avventura del linguaggio entro un'idea di "poesia senza nome" (Zib., 40) e dunque proteso al superamento di settorializzazioni disciplinari e di steccati stilistici.
«Felicità da me provata nel tempo del comporre…». Ma che significa esattamente per Leopardi il "comporre", lo scrivere poesia, al di là del consentirgli di avventurarsi nell'esperienza di una parola originaria e incantatrice? Investita di un potere assoluto, la scrittura assolve l'essenziale funzione di risarcimento e compensazione, attraverso i meccanismi della memoria, di una voglia di vivere altrimenti non realizzabile, proiettando l'io al di là delle proprie impotenze, nel mondo dei sogni e dei desideri, con la lucida consapevolezza di chi vuole e sa fissare intrepidamente la vita. È in questo spazio che si situa l'esperienza della scrittura leopardiana: nella ricerca di un punto di equilibrio tra vita e poesia, con la coscienza di una scelta non evasiva rispetto alle ragioni dell'io, nella convinzione lucidamente espressa già nel "Primo amore" («Solo il mio cor piaceami, e col mio core / in un perenne ragionar sepolto, / alla guardia seder del mio dolore», vv.82-84).
«Consapevole di potere tutto scrivendo», come sintetizza in un suo ricordo il Ranieri, Leopardi fa della scrittura il centro nodale della propria esperienza, proiettandola sul più vasto scenario della rappresentazione della «nullità del tutto» (Zib., 277), del Grande Vuoto delle cose e  della vita: chiuso e compresso nel suo io, lo scrittore trae dalla sua condizione uno slancio abissale che gli fa compiere un salto decisivo ben oltre l'orizzonte della propria finitezza e solitudine in virtù di una parola energica ed energetica, di urgente espressività.
Guardarsi come oggetto, «dall'alto» (Zib., 1086), vedersi in un unico colpo d'occhio «come per un lampo improvviso» nella propria nudità, rappresentandosi nell'immediatezza della propria verità, è questo che dá alla scrittura "di sé" il carattere di un fascinoso palinsesto continuamente mutevole e indecifrabile e al tempo stesso la fa apparire come il patetico ma anche esaltante referto sulla Nullità dell'esistente e dell'esperienza, messo in opera per mezzo dello svelamento delle articolazioni più interne e sensibili dell'animo: questo è quanto dice nell'"Infinito", questo è quanto appare per esempio, a distanza di dieci anni, in "A Silvia".
"Imitatore" soltanto di se stesso (Zib., 4373), il poeta gioca così attraverso il "comporre" una partita capitale con la vita, mettendo insieme, attimo per attimo, verso dopo verso, non fatti ed avventure, ma echi e attese, presagi e domande, e soprattutto le sensazioni di una continua, drammatica sproporzione tra ideale e reale, tra ciò che si vuole e ciò che si sa realizzare, attraverso la forza di un gesto, che davvero continuamente "aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita" (Zib., 4450), incantandosi al suono di una voce, quale è quella di Silvia, che "lingua mortal" non può descrivere: un autentico scri/vi/vere, insomma, per dirla in calembour, gratificante e al tempo stesso doloroso, quanto può esserlo la vita stessa, in cui il "sentire" dell'insensatezza del proprio essere e del proprio agire si emblematizza nella metafora di una scrittura che pensa e di un pensiero che scrive, dando vita a un processo in cui all'"immaginazione" si sostituisce l'"invenzione" intesa come passione costruttiva fondata sul ripensamento di tecnica, retorica e modelli, calati nel "sentimento" di una storia, di un'esperienza.

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