Cultura e Spettacoli
Lunedì 02 Gennaio 2012
Quel pareggio di bilancio
che fece l'Unità d'Italia
Come la Destra storica avviò, nel 1876, il risanamento del Paese nato pochi anni prima. Su "Storia contemporanea" la rilettura critica delle manovre economiche di quel periodo, da parte del tributarista Gianni Marongiu.
Nel 1862, l'Italia appena unificata appariva agli altri Paesi d'Europa un «cadavere finanziario», nel 1876 il bilancio dello Stato giungeva finalmente all'equilibrio, dopo anni di una cura inflessibile, somministrata dai governi della Destra. Marco Minghetti, presidente del Consiglio e ministro delle Finanze, lo annunziò nell'aula di Palazzo Carignano senza trionfalismi e senza enfasi, affermando che «la prima cosa, la più importante, quella da cui dovevamo incominciare, era il pareggio delle entrate e delle spese: era quella la pietra angolare di tutto il restante edificio».
Ciò che sta succedendo in questi giorni mostra con tutta evidenza a quali conseguenze si sarebbe andati incontro dimenticando, nel secolo successivo, questo principio fondamentale di una sana gestione delle finanze pubbliche e illumina con ancor maggiore evidenza la correttezza di quelle scelte che riuscirono a garantire l'appena raggiunta unità del Paese con una condizione finanziaria che consentiva di guadare con fiducia al futuro.
Il tema - di evidentissima attualità - dell'impegno della Destra storica in materia di bilancio pubblico e di fisco è al centro di uno dei saggi dell'ultimo numero di "Storia contemporanea", il bimestrale di studi storici e politici diretto da Francesco Perfetti, che ribalta, sulla scorta di inoppugnabili dati di fatto, l'interpretazione largamente diffusa negli anni successivi, secondo la quale il risanamento del bilancio era stato ottenuto sostanzialmente calcando la mano sui ceti meno abbienti e risparmiando quelli politicamente più affini al governo in carica. E documenta come il rigore sia stato decisamente proporzionato alla gravità di una situazione che appariva - ed era - difficilissima soprattutto perché occorreva portare in pareggio il bilancio e nello stesso tempo provvedere a una drastica e gigantesca opera di ammodernamento del Paese.
All'indomani dell'unificazione - scrive l'autore, Gianni Marongiu - la rete ferroviaria italiana non superava i 1.800 chilometri contro i 9.000 della Francia e i 17.000 della Gran Bretagna; l'analfabetismo si estendeva al 75% della popolazione (90% in Sicilia) contro il 10% di tutti i Paesi nordici, il 20% della Prussia e il 30% dell'Inghilterra; i sette Stati preunitari avevano incassato nel 1860 meno di 500 milioni di lire e al nuovo Stato ne servivano almeno 900 per sopravvivere. Davanti agli uomini che avevano assunto il governo stava un compito apparentemente impossibile, che fu invece portato a termine nella salda convinzione che «il vero problema politico d'Italia - come scrisse lo Chabod - era quello finanziario e che occorreva affrontare qualsiasi impopolarità pur di salvare il Paese dal dissesto economico e dal disonore a cui sarebbe fatalmente seguito il disastro politico…». Occorreva dunque evitare di incappare in un nuovo vincolo di dipendenza - scrive Marongiu - «quello dei Paesi sottosviluppati».
Se questa angosciante prospettiva poté essere superata è perché: «Il legislatore fiscale, in sintesi, seppe essere coraggioso e la disciplina post-unitaria dei tributi ebbe così forti connotati di novità da vivere più di un secolo superando la prova di differenti valutazioni politiche, di diversificate esigenze economiche, di modificati assetti sociali». D'altro canto, a proposito degli strumenti messi in campo per raggiungere lo scopo, ha poco senso, secondo l'autore, l'affermazione secondo la quale sarebbe stata sgravata di oneri la borghesia, per far pagare il costo maggiore della gigantesca operazione di risanamento al proletariato: «…allorquando, nel 1868, fu istituita la tassa sul macinato - scrive Marongiu - lungi dall'aggrapparsi ad essa, furono effettuate scelte compensative rilevanti (fu applicata la ritenuta sui titoli del debito pubblico, fu aggravata l'imposta di successione, furono potenziati i poteri accertativi dell'imposta di ricchezza mobile, fu introdotta l'imposta progressiva comunale di famiglia) e furono ridotte (anche negli anni successivi) le spese e in particolare quelle militari». Insomma, una politica spesso impopolare, ma mai antipopolare.
Del resto, insieme all'ossessiva attenzione di quegli anni per il raggiungimento del pareggio di bilancio, c'è un'altra eredità che varrebbe la pena di comprendere e di valorizzare oggi: la consapevolezza, ben presente in uomini come Quintino Sella e Giovanni Giolitti, che quando si assumono provvedimenti necessari, ma naturalmente poco gradevoli, come l'aumento delle tasse, c'è un prezzo da pagare nelle critiche e nell'avversione di chi è chiamato ai sacrifici. Un rischio, o una certezza, che uno statista può affrontare e un politicante no.
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