Cultura e Spettacoli
Domenica 08 Gennaio 2012
Angiolina beffò la morte
Don Giovanni non riuscì
Mentre alla Scala vanno in scena le repliche del "Don Giovanni" di Mozart - fino al 14 gennaio - Basilio Luoni rivela sorprendenti affinità tra il dramma lirico e le tradizioni lezzenesi.
Come dice un personaggio della "Pulzella di Orléans" di Schiller : «Facile da scalfire è il regno degli spiriti; stanno in agguato sotto coltre sottile, e d'un tratto prorompono». In questi giorni uno spirito fra i più rinomati - e di tale compattezza che invece d'aria dicono sia di pietra - è ricomparso sul palcoscenico della Scala, e più inquieto del solito si manifesta anche nel palco presidenziale.
È un morto implacato, il povero Commendatore padre di Donn'Anna e ha affidato il proposito di vendetta alla lapide che gli hanno posta sulla tomba senza perdere un minuto: ucciso nella prima scena del primo atto, a metà del secondo già ha il monumento funebre completo di statua e di cartello di sfida: «Dell'empio che mi trasse al passo estremo - qui attendo la vendetta». In mezzo sembra non ci sia stato nemmeno il tempo di celebrare dei funerali come si deve. Il che, tutto sommato, giustificherebbe il fatto che ogni tanto il morto si mette a parlare e a deambulare: non si è reso ancora ben conto di essere morto. Don Giovanni, imprudente, gli rimanda la sfida, latore Leporello: «Digli che questa sera - l'attendo a cena meco».
E quello, alla sera, si presenta ma non accetta il cibo, pur invitante, poichè si tratta di petto di fagiano e di eccellente marzimino. C'è dunque «infrazione alle leggi dello scambio alimentare» (Rousset ). La tavola che dovrebbe riunire e conciliare sancisce invece la irrimediabilità del conflitto: donde il finale tragico con Don Giovanni "inghiottito" dalla bocca infernale che gli si spalanca sotto i piedi. Salvo ritornare subito dopo, nello spettacolo scaligero,a catapultare, per un eccellente sberleffo della regia, i suoi persecutori nella stessa gola insaziabile.
La cena con il Commendatore a Lezzeno era prevista - ma usare l'imperfetto è sbagliato - per la notte che va dal giorno dei Santi a quello dei Morti. La festa di Ognissanti imponeva riposo assoluto, come il sabato degli ebrei. Nessuno doveva lavorare. Vietato far legna nei boschi, vietato andare a caccia. Vietato, persino, alle donne, di andare a prender acqua alla fontana. Margherita Barindelli nel suo "Almanacco lezzenese", dice che le secchie andavano riempite la sera prima. Così pure i giorni precedenti andavano sbucciate le castagne, e per una volta si sbucciavano marroni invece di portarli al mercato di Como.
Exempla raccapriccianti dissuadevano dal comportarsi altrimenti : un lezzenese non aveva tenuto conto dei divieti ed era andato a far legna nei boschi. Al ritorno era irriconoscibile : incanutito di colpo, smorto in faccia come il siero del latte, incapace di buttar parola. Finalmente, quando si riprende un poco dallo spavento,racconta ciò che ha visto nei boschi: «una processione lunga lunga di gente vestita di bianco, e mescolati a questa folla dei lezzenesi che erano morti da poco». È la "caccia selvatica", il corteo dei morti inquieti come uccelli di passo certificato dalla Bretagna alle Alpi alla pineta di Ravenna, dove lo incontra l'innamorato senza speranza Nastagio degli Onesti, e alla Itaca di Omero, dove Ermes raduna la turba dei Pretendenti appena trucidati da Odisseo per condurli nell'Ade.
A metà pomeriggio si metteva al fuoco il paiolo con i marroni sbucciati. Per l'ora di cena finalmente erano cotti, si potevano liberare anche dell'ultima membrana sottile, li si metteva in una scodella, si innaffiavano di latte che si tingeva di marroncino. Qualche vizioso aggiungeva del vino. Poteva iniziare la cena di conciliazione. I vivi, dopo aver mangiato, mettevano in ordine la cucina («mortui libenter veniunt ad loca munda»: i morti vanno volentieri nei luoghi puliti, abitudine igienica appresa dai seguaci di Oberon e Titania; chi non ricorda Puck alla fine del "Sogno" shakespeariano: «mi hanno mandato avanti con la scopa a spazzare la polvere dietro la porta») e se ne andavano a letto lasciando sulla tavola apparecchiata una terrina di "pelee" per i morti. Gli uni e gli altri "dunque" dovevano mangiarne: i primi perchè i morti non venissero a tirargli le gambe durante il sonno, i secondi per non dover vagare inquieti fuori dalle caverne d'oltretomba: perché insomma ci fosse pace tra i due regni. La mattina seguente si controllava: le castagne nella terrina erano diminuite. Ma le cerimonie pacificatrici continuavano per tutto il due novembre. Si celebravano sei messe quel giorno e i buoni cristiani ne dovevano seguire almeno tre. E c'era una messa di suffragio, ogni giorno per tutta l'ottava dei Morti.Tali messe erano pagate dalla comunità: il curato incaricava i fabbriceri di passare casa per casa a raccogliere le elemosine. Con un bussolotto munito di lucchetto. Quando i morti poi diventavano fastidiosi, un' incantevole fiaba suggeriva come liberarsene. È la fiaba dell'Angiolina, che era una ragazza fidanzata a un cavaliere. Scoppiò improvvisamente la guerra e lui dovette partire. Alla vigilia del commiato i due si fecero una promessa solenne: «Vivi o morti ci sposeremo».
Passarono settimane, passarono mesi, e del cavaliere non si sapeva più nulla. Finalmente, una notte di luna, Angiolina sentì sotto la finestra una voce che la chiamava sommessa. Si affacciò e vide il fidanzato che la invitava a fare un giro in carrozza: è tanto chiara la notte... La ragazza si vestì di corsa e raggiunse l'amoroso, che l'abbracciò, le aprì lo sportello e l'aiutò ad accomodarsi sul sedile. La carrozza era trainata da due corsieri neri veloci come il vento e presto fu in aperta campagna. Angiolina scrutava il promesso sposo: aveva il volto pallidissimo, dello stesso colore della luna, e la fissava senza mai distogliere gli occhi da lei. Tuttavia sembrava che il suo sguardo la sfiorasse senza vederla e andasse a perdersi chissà dove. A un tratto il cavaliere parlò con una strana voce, fioca e lontana, una voce assente si sarebbe detta: «La luna è chiara e l'ombra è scura. Angiolina non hai paura?». «No, non ho paura», rispose lei e più di una volta, perchè più volte il, giovane ripetè la domanda. «Perchè è così insistente? Non ha sentito che gli ho appaena risposto?» rifletteva tra sè, e nello stesso istante vide profilarsi contro il cielo lattiginoso i cipressi del cimitero. Per abitudine si fece il segno della croce e in batter d'occhio carrozza, corsieri e cavaliere svanirono, come se la terra li avesse inghiottiti. «Dove è finito tutto?» si chiese la ragazza spaventata e dovette tornarsene a casa a piedi. La notte seguente la scena si ripetè uguale e Angiolina, sempre più preoccupata si confidò con un'amica che le consigliò di parlarne con il curato. Era un vecchio, il curato, era stato sui libri tutta la vita e non si meravigliava di nulla. «Questa notte» disse alla ragazza dopo averla ascoltata, «il tuo cavaliere ritornerà. Tu in giornata ti devi fare un vestito di carta e infilartelo. Quando sarai in carrozza il tuo amoroso cercherà di farti parlare, ma tu non rispondere a nessuna domanda e per nessun motivo».
«Perchè signor curato?» avrebbe voluto sapere lei, ma il vecchio era di poche parole e subito si spazientì: «Fa' come ti ho detto e basta!». Angiolina imbastì il vestito si spogliò e si coricò. Quando a notte sentì la voce del fidanzato indossò l'abito leggero, che frusciava e rischiava di lacerarsi a ogni movimento, e salì in carrozza con grande precauzione. I cavalli partirono al galoppo e lei, muovendo silenziosamente le labbra prese a recitare l'Ave Maria. Il cavaliere le fece la solita domanda: «La luna è chiara, la notte è scura. Angiolina, non hai paura?». Lei zitta, come se non avesse sentito. Di nuovo la domanda, di nuovo silenzio. L a voce del fidanzato si caricò di tristezza: «Ti sei consigliata con qualcuno?». Nessuna risposta. Dal finestrino adesso si vedeva l'ingresso del cimitero, e la carrozza era ferma in silenzio assoluto. Neanche la voce del cavaliere sembrava infrangerlo: «Ricordati la promessa Angiolina: che vivi o morti saremmo sposi. Io sono morto e sono tornato a sposarti. Tocca a te, adesso, mantenere la promessa. Seguimi, vieni con me!». Fece per stringerla in un abbraccio, ma il vestito di carta si lacerò e mentre cavalli, carrozza e cavaliere dannato svanivano nel nulla Angiolina potè fuggire via. Era rimasta in sottoveste, ma a quell'ora sulla strada non c'era anima viva.
Una frase di Angiolina ricorda sorprendentemente una replica di Don Giovanni. «Non ho paura» dice lei, e il libertino di Mozart alla statua che lo invita a seguirlo: «Non ho timor: verrò». Però la ragazza non ha colpe da espiare né divieti da infrangere né curiosità ultratrerrene. Semplicemente trova assurdo morire giovane perchè l'amante è morto. Ci sarà pure in paese un altro giovanotto degno di rimpiazzarlo. E così, mentre Don Giovanni alla presa del morto offre la mano, lei offre un vestito di carta dal quale può sgusciare via come una lucertola.
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