Cultura e Spettacoli
Venerdì 17 Febbraio 2012
Nel libro "Manipulite"
il ricordo di Davigo
Per gentile concessione dell'editore Chiarelettere, pubblichiamo l'estratto del volume di Barbacetto, Gomez e Travaglio, in uscita il 17 febbraio, a due decenni esatti dall'arresto di Mario Chiesa, che diede il via a quella stagione investigativa, processuale, politica.
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Per non dimenticare
di Piercamillo Davigo
Mani pulite. Vent'anni dopo
Sono passati vent'anni da quando, il 17 febbraio 1992, a Milano fu arrestato
Mario Chiesa, fatto che è stato considerato l'inizio di quelle indagini che
i mezzi di informazione hanno chiamato «Mani pulite». Quella non era la
prima volta in cui un pubblico amministratore veniva sorpreso in flagranza
di corruzione, e non fu l'ultima. Per quale ragione, vent'anni dopo, quell'accadimento
viene ancora ricordato, tanto da portare alla seconda edizione di
un volume che ricostruisce quella vicenda e quelle che seguirono?
Credo che la spiegazione sia da ricercare nel sorprendente (anche per
gli inquirenti) sviluppo delle indagini, innescate da quell'episodio, che in
un tempo relativamente breve (specie se rapportato ai tempi dell'amministrazione
giudiziaria) portò alla scoperta di un numero impressionante di
reati e al coinvolgimento di migliaia di politici, funzionari e imprenditori.
Che cosa aveva fatto la differenza fra quelle indagini rispetto ad altre
precedenti e successive?
In questi vent'anni si sono sentite in proposito, da parte di vari commentatori,
numerose sciocchezze, quali «lo sapevano tutti», «dov'era prima
la magistratura?», «è stato un golpe» (orchestrato, a seconda dell'ideologia
di chi sosteneva tale tesi, dai comunisti, dalla Cia, dai poteri forti ecc.) e
altre stravaganze. Anzitutto non è vero che «lo sapevano tutti». Né i miei
colleghi né io, pur avendo la percezione che i reati di concussione, corruzione,
finanziamento illecito dei partiti politici e false comunicazioni sociali
fossero ben più numerosi di quanto risultava dalle statistiche giudiziarie,
immaginavamo le dimensioni dell'illegalità, quali emersero dalle indagini.
Neppure i cittadini immaginavano che la corruzione avesse raggiunto tali
dimensioni e soprattutto che appartenenti a partiti di opposti schieramenti
si dividessero le tangenti, e rimasero attoniti quando Bettino Craxi, alla
Camera dei deputati il 29 aprile 1993, parlò di un sistema di finanziamento
illegale alla politica che coinvolgeva tutti, senza che nessuno dei deputati
presenti in aula (fra cui certamente ve ne erano pure di onesti, ma ignari
di ciò che era accaduto all'interno dei loro partiti) si alzasse a rivendicare
la propria estraneità e il proprio sdegno nel sentirsi accomunare al generale
ladrocinio.
Del resto nelle statistiche giudiziarie i reati di corruzione apparivano (e
appaiono tuttora) come poco numerosi, ma ciò non deve stupire. La corruzione
ha infatti alcune caratteristiche della mafia, fra cui la sommersione
e il contesto omertoso, e ha una cifra nera (differenza fra delitti commessi
e delitti denunziati) altissima. La corruzione non si commette di fronte a
testimoni; è un reato a vittima diffusa, non viene subita da una persona fisica
determinata che abbia l'interesse a denunciarla; e le pratiche comprate sono
quasi sempre le più «a posto», le più curate; se a ciò si aggiunge che le leggi
vigenti rendono difficile scoprirla e reprimerla, vi sono ragioni sufficienti
per spiegare perché prima (ma anche dopo) sia emerso nelle statistiche
giudiziarie pochissimo di quel sistema di illegalità diffusa che le indagini
del 1992-95 svelarono.
Queste considerazioni rispondono anche alla domanda «dov'era prima la
magistratura?». Mi sono sempre chiesto perché mai tale domanda (almeno
per quel che ne so, ma non mi stupirei del contrario) non sia stata formulata
anche a proposito dei procedimenti di mafia. Le indagini sulla mafia, solo
dalla collaborazione di Tommaso Buscetta in poi, hanno potuto evidenziare
l'esistenza di Cosa nostra come struttura unitaria con regole radicate. Prima
i magistrati e le forze di polizia non avevano la minima idea della struttura
interna a tale organizzazione.
Peraltro è ben possibile che alcuni di coloro che pongono queste domande
retoriche sapessero sia della corruzione che della mafia, ma allora il quesito
da porre a costoro dovrebbe essere: «Se lo sapevi perché non hai informato
le Procure della Repubblica?».
Quanto alla tesi del golpe, un briciolo di buon senso sarebbe sufficiente
a ricordare che chi fa affermazioni così devastanti dovrebbe adempiere
all'onore di supportarle con fatti. Rimane il fatto che in quella vicenda
gli esiti delle indagini furono diversi da quelli di procedimenti anteriori
e successivi, pur talvolta condotti dalle stesse persone fisiche, con uguale
determinazione.
1992. Il sistema entra in crisi
Bisogna allora cercare di individuare le ragioni per le quali questo è avvenuto
e perché allora. Anzitutto perché, come ha insegnato il professor Franco
Cordero, la caccia e la preda sono due cose distinte. Si può andare a caccia
seguendo le regole venatorie e non prendere nulla, così come si può essere
pessimi cacciatori e tuttavia avere fortuna, tornando dalla battuta con un
ricco bottino. Tuttavia ritengo che siano individuabili alcuni specifici fattori
che possono contribuire a spiegare l'esito particolarmente favorevole che
quelle indagini ebbero nel periodo dal 1992 al 1995.
L'enorme debito pubblico e la crisi economica del 1992 avevano determinato
la riduzione della spesa pubblica per l'acquisto di beni e servizi e
questa, a sua volta, aveva ridotto la possibilità per i corruttori di traslare
le tangenti sulla pubblica amministrazione e di sperare in futuri lucrosi
appalti. Molti imprenditori, che fino ad allora avevano partecipato a
cartelli corruttivi, si scoprirono concussi e, anziché far fronte comune
con i corrotti, cominciarono a scaricarli, fornendo agli inquirenti l'elenco
delle tangenti pagate. All'inizio i vertici dei partiti scaricavano i soggetti
che venivano arrestati, descrivendoli come mariuoli isolati, singole mele
marce. E quelli, sentendosi abbandonati dai loro complici, descrivevano
il resto del cestino delle mele. Ciò determinò una reazione a catena nelle
chiamate in correità incrociate e quello che in questo volume viene chiamato
«effetto domino».
Le indagini fecero emergere che la corruzione è un fenomeno seriale e
diffusivo: quando qualcuno viene trovato con le mani nel sacco, di solito
non è la prima volta che lo fa. Inoltre i corrotti tendono a creare un
ambiente favorevole alla corruzione, coinvolgendo nei reati altri soggetti,
in modo da acquisirne la complicità fino a che sono le persone oneste a
essere isolate.Ciò indusse ad affrontare questi reati con la consapevolezza
che non si trattava di comportamenti episodici e isolati, ma di delitti seriali
che coinvolgevano un rilevante numero di persone, fino a dar vita ad ampi
mercati illegali.
Nel 1992, con il crollo delle ideologie, era anche entrata in crisi la tradizionale
forma-partito come strumento di aggregazione del consenso e
soggetto destinatario dell'assoluta fedeltà degli iscritti. Ricordo che in una
trasmissione televisiva, poco dopo l'arresto del segretario cittadino del Pds,
un iscritto a quel partito, intervistato, commentò il fatto dicendo che da
trent'anni andava ai festival dell'Unità come volontario a cuocere le salamelle
sulla griglia e che ora veniva a sapere che, mentre lui girava le salamelle sulla
griglia, i suoi capi rubavano, e concludeva dicendo che dovevano andare in
galera. L'insieme di queste cause consentì la scoperta della vasta trama di
corruzione, e la reazione dell'opinione pubblica, la cui sensibilità era acuita
dalla crisi economica, ebbe effetti (all'apparenza) dirompenti sul panorama
politico: scomparvero dalla scena politica cinque partiti, quello di maggioranza
relativa (Democrazia cristiana) e altri quattro (Partito socialista italiano,
Partito socialdemocratico italiano, Partito repubblicano italiano e Partito
liberale italiano), tre dei quali avevano più di cento anni.
La restaurazione
In realtà il sistema politico si è rapidamente ricomposto in forme nuove,
continuando tuttavia a calpestare sia la volontà dell'opinione pubblica (ad
esempio aggirando l'esito del referendum sull'abrogazione del finanziamento
pubblico dei partiti politici, che oggi ottengono dallo Stato più denaro di
prima del referendum, giustificato come rimborsi per spese elettorali) che le
esigenze, imposte anche da istanze internazionali (Onu, Consiglio d'Europa,
Unione europea, Fondo monetario internazionale, Ocse), di ridare legalità e
trasparenza alle istituzioni e al mercato. Da allora (e fino a non molto tempo
fa) è invece stato avviato un tentativo di restaurazione, che ha ottenuto il
duplice risultato di far crollare il numero delle condanne per corruzione e di
far precipitare l'Italia, negli indici della corruzione percepita, al penultimo
posto (nel senso degli ultimi della classe) nel mondo occidentale, dietro
molti paesi africani e asiatici.
Il numero di condanne per corruzione, ridotto a un decimo di quello di
quindici anni fa, non appare dunque frutto di una riduzione della corruzione,
ma della difficoltà a fronteggiarla. Il clima in cui da anni operano i
magistrati (attaccati da ogni parte e perennemente «minacciati» di riforme
volte a ridurre la loro indipendenza e la loro possibilità di azione) e lo sfascio
della giustizia non impedito e talora accentuato da parte delle maggioranze
parlamentari che si sono trasversalmente avvicendate in questi vent'anni,
spiegano sia le maggiori difficoltà delle indagini che l'esito negativo dei
processi, sempre più spesso conclusi con pronunzie di prescrizione. Non
ci si deve quindi stupire se la corruzione è probabilmente aumentata e,
se mai, ci si deve domandare perché questi reati dovrebbero emergere in
procedimenti giudiziari.
La normativa sulla corruzione, per il numero e la frammentazione delle
fattispecie, consente di inquinare agevolmente le prove: basta un'occhiata
d'intesa fra due soggetti per passare, con lievi modifiche delle dichiarazioni,
dalla concussione alla corruzione, dalla corruzione propria a quella impropria,
con rilevanti effetti sia sulla pena che sulla prescrizione. Perciò non si
può indagare su un caso di corruzione se i protagonisti possono comunicare
fra loro. Inoltre la serialità e diffusività di questi reati integra pressoché
sempre il pericolo di reiterazione dei reati. L'esperienza insegna anche che
questo pericolo non viene meno neppure con l'allontanamento dei corrotti
da incarichi pubblici, perché li si ritrova di lì a poco a svolgere il ruolo di
intermediari fra i vecchi complici non scoperti.
In un interrogatorio reso nel 1992, una persona sottoposta a indagini,
riferendo di appalti relativi a un importante ente pubblico a livello
nazionale, dichiarò che esisteva un cartello di circa duecento imprese
che si spartivano tali appalti, che si pagava praticamente chiunque, sia
con riferimento alla struttura dell'ente sia ai segretari amministrativi dei
partiti di maggioranza e dei principali partiti di opposizione, e che ciò «è
standardizzato da almeno vent'anni».[1] Essendo questo il quadro, secondo
le regole del codice di procedura penale, nessuno dei soggetti che delinquono
da anni, inseriti in un contesto criminale e criminogeno, dovrebbe
essere in stato di libertà.
Ma le campagne mediatiche contro le presunte «manette facili» (chissà
perché riferite solo ai crimini dei colletti bianchi e non, ad esempio, agli
scippatori) hanno sortito effetto: oggi i magistrati arrestano molto meno
per questi reati e comunque si ricorre agli arresti domiciliari, anziché alla
custodia in carcere, con il risultato che molte indagini vengono irrimediabilmente
inquinate.
Gli indagati, anche quando fingono di collaborare, confessano solo quel
che non possono negare o che immaginano sarà comunque provato e lo
raccontano a modo loro, spesso dopo aver concordato versioni di comodo
con i complici e ritagliando spazi di omertà da far valere per assicurarsi
un futuro politico ed economico basato sulla capacità di ricatto acquisita
con il silenzio mantenuto. Nel sistema ci sono meno smagliature in cui gli
inquirenti possono infilarsi per scoprire la verità. La legge elettorale vigente
fa dipendere l'elezione dalla collocazione in lista, sicché i vincoli verso coloro
che formano le liste elettorali si sono rinsaldati e la tendenza a fare quadrato
prevale su ogni altra considerazione.
D'altro canto a rapporti diretti di corruzione sembrano essersi affiancati
comitati d'affari che rendono ancora più difficile ricondurre le relazioni a
fattispecie penali, non essendo stato inserito nel codice penale il delitto di
traffico d'influenza, alla cui introduzione pure le convenzioni internazionali
obbligano l'Italia. L'unica spinta di segno contrario alla protezione della
corruzione proviene infatti dalle istanze internazionali. Le poche leggi che
mirano a rendere più facile la scoperta e il perseguimento di questi reati
derivano da convenzioni internazionali. Tuttavia la Convenzione penale sulla
corruzione del Consiglio d'Europa, dopo essere stata firmata nel 1999, non
è stata ancora ratificata dall'Italia.
Altre convenzioni, in sede di ratifica, non sono state attuate o sono state
depotenziate. Ad esempio: è stata introdotta nel codice penale la confisca per
equivalente (cioè di beni di pari ammontare) del prezzo, ma non del profitto
di reato. La legge, come ha confermato una recente pronuncia della Corte
di cassazione a sezioni unite in materia di peculato, infatti, non consente
la confisca dei beni per l'equivalente del profitto sottratto. Si può soltanto
confiscare l'equivalente del prezzo del reato. Come se si sequestrasse all'autore
di una rapina l'equivalente della paga avuta per partecipare al delitto,
ma non l'equivalente della refurtiva.
Leggi salvacorrotti
La sequenza di leggi di origine soltanto nazionale è invece di segno opposto.
Molte pronunzie assolutorie sono derivate dalla sopravvenuta (per
leggi nel frattempo approvate) inutilizzabilità di prove prima utilizzabili
e – nel silenzio dei mezzi d'informazione – presentate come attestazioni
di innocenza. Elevatissimo è stato il numero di sentenze di non doversi
procedere per prescrizione, mai rinunziata dagli imputati, anche da
coloro che hanno ricoperto cariche pubbliche, dimentichi che l'articolo
54 della Costituzione richiede a costoro «disciplina ed onore», senza che
mai nessuno all'interno dello stesso o di opposti schieramenti ricordasse
il dovere dell'onore.
La legge «ex Cirielli», oltre a ridurre i termini di prescrizione e a mandare
in fumo decine di migliaia di processi in più, ha sortito un effetto spesso
ignorato: prima, se ad esempio un corrotto riceveva tangenti per dieci anni,
tutte le corruzioni rientravano in un unico disegno criminoso e l'istituto
della continuazione gli riduceva la pena: ma la prescrizione decorreva
dall'ultimo episodio di corruzione. Con la legge ex Cirielli invece ogni
reato in continuazione si prescrive autonomamente. Le conseguenze sono
che non è più possibile risalire nel tempo a investigare precedenti episodi
per individuare i complici e risalire ai fatti più recenti da costoro realizzati.
Chi vuol corrompere un funzionario pubblico deve avere dei fondi
neri, cioè deve falsificare i bilanci. Dietro un bilancio falso molto spesso si
nascondono anche tangenti.
Le leggi più dannose sono state perciò quella approvata dalla maggioranza
di centrosinistra sui reati finanziari e quella della maggioranza di
centrodestra sul reato di false comunicazioni sociali. La prima ha ridotto
la punibilità per l'annotazione di fatture per operazioni inesistenti (il
sistema più usato per creare fondi neri) solo ai casi in cui si riverberano
oltre una certa soglia sulla dichiarazione dei redditi: basta indicare spese
gonfiate o inventate fra i costi non deducibili anziché fra quelli detraibili
e si ottengono risorse fuori bilancio senza più commettere reato. Con la
seconda (riforma del falso in bilancio del 2001) sono state abbassate le pene
e dunque ridotta la prescrizione, sicché è quasi impossibile concludere i
processi in tempo utile.
Ma soprattutto, per le società non quotate, il delitto è stato reso perseguibile
solo a querela della parte offesa, creditore o azionista. Il creditore
non è danneggiato dalle false comunicazioni, ma dall'insolvenza: se viene
pagato non sporgerà querela. I soci di minoranza di solito ignorano le
falsità contabili, ma se anche le conoscessero verrebbero tacitati. Il socio di
maggioranza di solito è il mandante e il beneficiario del reato (altrimenti,
invece di denunciare l'amministratore, lo sostituirebbe), sicché stabilire la
perseguibilità del falso in bilancio a querela dell'azionista è come pretendere
la perseguibilità del furto a querela del ladro. Con entrambe le riforme
sono state comunque introdotte soglie di non punibilità molto alte: è stata
così prevista la liceità penale della «modica quantità» di fondi neri, come
per la droga!
I risultati di queste modifiche normative non si sono fatti attendere: al
solo processo per l'aggiotaggio Parmalat si sono costituite circa 40.000 parti
civili, cioè 40.000 vittime che volevano essere risarcite. Quanto impiega uno
scippatore a fare 40.000 vittime?
Quanto all'abuso d'ufficio (reato utilissimo per iniziare a indagare) è
stato depenalizzato quello non patrimoniale e sono state abbassate le pene
per quello patrimoniale, così vietando la custodia cautelare.
Oggi sembra (sembra?) che i partiti, quasi sempre, continuino a difendere
i propri uomini che finiscono nei guai. Quella che viene chiamata la casta
fa quadrato, nessuno (o quasi) viene scaricato. L'opinione pubblica è stata a
lungo indifferente o rassegnata o semplicemente non informata. Nel 1992
giornali e tv raccontavano i fatti, e questi erano più importanti dei commenti
perché parlavano da soli. Peraltro i commenti erano frequentemente favorevoli
all'opera di pulizia, come l'editoriale di Giulio Anselmi La torta è finita, sul
«Corriere della Sera» del 2 maggio 1992, talora perfino imbarazzanti per gli
inquirenti, come gli articoli di Vittorio Feltri (poi convertito) che arrivava a
scrivere: «Che Dio salvi Di Pietro» («L'Indipendente» del 15 giugno 1992)
e a parlare di «regime putrido» («L'Indipendente» del 16 dicembre 1992) e
molti altri ricordati nel libro.
Successivamente molto spesso i fatti vennero nascosti, filtrati e manipolati
da un sistema mediatico controllato da potentati politici e imprenditoriali,
frequentemente coinvolti nei procedimenti giudiziari. Il commento fuorviante
ha finito per prevalere sulla cronaca, relegata in posizioni marginali
per consentire ai mezzi di informazione di parlar d'altro. Frequentissimi
sono stati gli attacchi ai singoli magistrati, a interi uffici giudiziari e alla
magistratura nel suo complesso, ma ciò nonostante la magistratura sembra
aver complessivamente tenuto. Negli anni '80, quando subì il referendum
sulla responsabilità civile dopo le prime indagini sulla corruzione e il crimine
organizzato, la magistratura ne era uscita più indebolita di quanto non
appaia ora (e tuttavia mancavano cinque anni a Mani pulite).
Oggi, come nel 1992
Per l'insipienza di chi li sferrava, gli attacchi hanno investito non solo i
magistrati del pubblico ministero, ma anche tutti i giudici di ogni grado,
fino alle Sezioni unite della Corte suprema di cassazione, così ottenendo il
risultato di tenere uniti i magistrati.
Il fatto che in tutta Italia ci siano ancora inchieste e processi sui reati della
classe dirigente, nati quasi sempre da iniziative giudiziarie e quasi mai dalle
forze di polizia (che non hanno le guarentigie di indipendenza dal potere
politico che tutelano i magistrati, sicché tale iniziativa non è da loro esigibile),
è segno che la magistratura è riuscita a conservare la sua indipendenza.
La crisi economica che oggi, come nel 1992, grava sul paese probabilmente
ridarà slancio a iniziative serie per ridurre la corruzione e di conseguenza
a una repressione più incisiva. Tuttavia tanti anni sono passati invano ed
è necessario ricominciare dall'inizio a fronteggiare questi fenomeni, che
contribuiscono a rendere l'Italia poco efficiente e poco credibile sul piano
internazionale, per l'ingente sperpero di risorse pubbliche, i tempi biblici
per la realizzazione di opere pubbliche e la scarsa qualità dei beni e servizi
acquistati dalle pubbliche amministrazioni, quantomeno sotto il profilo
qualità-prezzo. Allora è necessario ricordare i fatti accaduti vent'anni or sono
perché quello è stato il momento in cui le reali dimensioni della corruzione
in Italia sono cominciate a emergere e dai fatti accertati possono essere tratti
elementi utili per fronteggiare seriamente queste attività delittuose.
Il volume di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio è un
ottimo compendio di quei fatti. Uscì nella sua prima edizione nel 2002,
dieci anni dopo l'inizio di quelle indagini, nel momento in cui cominciava
ad affievolirsi il ricordo di quanto era accaduto e i mezzi di informazione
tentavano di accreditare l'idea che i magistrati avevano esagerato in passato,
che in ogni caso erano stati parziali, avendo salvato alcune forze politiche,
ma che ora si era finalmente tornati alla normalità e via discorrendo di simili
amenità, anziché guardare inorriditi il fango che era emerso, l'ipocrisia di
un'intera classe dirigente, il palese spregio del giuramento prestato da parte
di moltissimi funzionari pubblici.
Il racconto dei fatti, ricostruiti con certosina pazienza e con la maestria
che contraddistingue gli autori, spazza via le sciocchezze e le menzogne
che per anni sono state divulgate dai mezzi di informazione. Accanto ai
delitti commessi emerge con nitore l'incapacità (se non peggio) della classe
dirigente di questo paese di creare le condizioni perché si possa vivere
secondo le regole comunemente accettate del mondo occidentale, del quale
dichiariamo di voler far parte.
Quest'opera è un vademecum che aiuterà a ricordare ciò che è accaduto,
perché è l'oblio dei misfatti che lentamente consuma la libertà delle istituzioni.
(Copyright di "Chiarelettere", tutti i diritti riservati)
[1] Si veda P. Davigo, G. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale controllo penale, Laterza, Roma-Bari 2007.
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