Quando eravamo emigranti
La ballata amara di Vitali

Per gentile concessione pubblichiamo un capitolo del libro "Manone" (Cinquesensi, 78 pag., 30 euro), scritto da Andrea Vitali con disegni di Bruno Ritter, che verrà presentato il 2 marzo alle ore 16 a Villa Garbald-Castasegna a Bregaglia (Ticino). L'opera si ispira alla vita e alle fatiche degli operai italiani impegnati nella costruzione della diga dell'Albigna in Val Bregaglia (1959). In allegato l'inizio dell'opera.

<+G_NERO>Per gentile concessione pubblichiamo un capitolo del libro "Manone" (Cinquesensi, 78 pag., 30 euro), scritto da Andrea Vitali con disegni di Bruno Ritter, che verrà presentato il 2 marzo alle ore 16 a Villa Garbald-Castasegna a Bregaglia (Ticino). L'opera si ispira alla vita e alle fatiche degli operai italiani impegnati nella costruzione della diga dell'Albigna in Val Bregaglia (1959).

<+G_CULTURAFIRMA>Andrea Vitali
<+G_SQUARE><+G_TONDO>L'uomo che ci aveva accolto quando arrivammo, quello con le scarpe chiodate ai piedi, ci contava tutte le sere all'uscita dal cantiere. Era una misura insensata, atta a farci sentire cose, numeri. Lo faceva in tedesco. Eins, zwei... al tre si beccava  regolarmente un «a fa'n to culo» che a turno usciva, dalla bocca di uno di noi, cui l'incarico di salutarlo così veniva affidato poco prima di terminare il lavoro.
Se Herr Ritter era un orco, l'uomo con le scarpe chiodate era un verme. Nemmeno adesso potrei dire con certezza che incarico avesse nella ditta che ci aveva assunto. Forse contabile, visto che portava una cravatta decorata con le stelle alpine senza mai rinunciare però alle scarpe chiodate. Tra di noi c'era uno sul cui passato era meglio non indagare. Era uno di quelli con la barba che i doganieri avevano portato in una stanza e visitato dappertutto, cosa che l'aveva mandato in bestia. Era stato lui il primo, dopo tre giorni di conta, a mandare a fare in culo il verme. Diceva che gli sarebbe piaciuto, prima di tornare in Italia, afferrare con le sue manone il verme per la testa e stringere fino a fargliela scoppiare,, per vedere uscire solo merda.
Quella sera il verme non ci contò, evitò di farsi mandare a fare in culo, ci osservò passare uno alla volta, in fila indiana, perché i confini del cantiere erano cintati e se ne poteva uscire o entrare solo attraverso un cancelletto che consentiva il passaggio di una persona sola alla volta. Ci guardò passare, un cenno del capo per ognuno. Quando venne il mio turno agitò la mano per aria, facendomi capire che dovevo uscire dalla fila. Obbedii. Gli altri, nel frattempo erano usciti ma si erano fermati ad aspettarmi. Il verme disse che potevano andare. Anzi, che dovevano andare.
«Noi due dobbiamo parlare», disse.
Parlò lui solo. Sotto un cielo che si stava lentamente rannuvolando.
«Ho saputo» cominciò col dire.
Teneva le mani dietro la schiena. Io guardavo la roccia della montagna di fronte che mutava colore. Pensavo alle manone del mio compagno, alla merda che avrebbero fatto schizzare da quel cranio. Aveva saputo che ero stato dal capomastro durante la pausa del pranzo.
Aveva un tono di voce pigro. Una pigrizia che stava in tutto quello che era intorno a noi, la luce smorta, le montagne, l'aria insapore. Era piccolo, il verme. Non voleva alzare la testa per guardarmi negli occhi. Parlava col mio sterno. I miei compagni s'erano avviati. Nonostante fossero fuori dal cantiere camminavano ancora in fila indiana. Chiusi gli occhi per non vederli.
Il verme aveva saputo perché ero andato a disturbare il capomastro nella sua baracchetta durante la pausa per il pranzo.
«Quindi sia chiaro!», furono le sue parole.
Me lo avrebbe detto una volta per tutte, non si sarebbe ripetuto. Non mi dovevo più permettere di disturbare il capomastro, per nessuna ragione. Ma, soprattutto, disse, di Hilde, così ne appresi il nome della figlia di quel porco, non mi dovevo occupare. Lasciarla in pace, starle alla larga, se non volevo finire in un sacco di guai, io e i miei compagni.
«La ragazza è già promessa», disse, a un ingegnere. Un ragazzo del paese che stava terminando gli studi a Zurigo. Anche loro, disse il verme, sapevano convincere i recalcitranti nel caso non avessi ben compreso le sue parole. Già che c'era ne approfittò per informarmi che il sabato seguente sarebbe arrivata un'ispezione sanitaria, nel pomeriggio, quindi proibito allontanarsi dagli alloggiamenti. La cosa mi faceva quasi piacere. Non volevo dire ai miei compagni del mio interesse per Hilde (cominciai subito a chiamarla così). Il verme mi aveva dato la scusa buona per giustificare davanti a loro quel colloquio a due.
«Adesso via, "raus"!».
Comunicai subito la notizia. Ne seguì un coro di imprecazioni. Il sabato si lavorava solo metà giornata. Per il resto, ciascuno poteva fare quello che voleva. Cioè niente, o quasi. Perlopiù aspettare che Herr Ritter aprisse la sua locanda, non prima delle sei di sera. Ciononostante i miei compagni se la presero di brutto. Soprattutto quello alto con le manone passò gran parte della serata a gridare una sola parola: merda. La merda che stava al posto del cervello nel cranio del verme.
Mi addormentai pensando al nome della ragazza. Lo vedevo scritto in lettere maiuscole: HILDE. Ero lontano dall'immaginare che non esisteva alcuno studente, nessun ingegnere che stava ultimando gli studi a Zurigo.
Che il promesso fosse un altro.
(© Tutti i diritti riservati a Cinquesensi, Ritter e Vitali)

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