Padre Ambrosoli e l'Africa
Un amore che continua

La nipote del medico e missionario di Ronago racconta lo zio, la cui opera continua all'ospedale di Kalongo. Guarda la fotogallery: alcune immagini esposte nella mostra in corso fino al 31 marzo al Broletto di Como.

di Carla Colmegna

L'ironia e le risate come armi in una lotta al dolore e alla povertà, che il medico missionario comasco, padre Giuseppe Ambrosoli, sostenne al punto che oggi la sua opera viene studiata per ultimare la causa di beatificazione.
Ma su queste fondamenta di altruismo c'è stato posto, prima dell'Africa, anche per i tanti ebrei che il missionario ha fatto scappare, durante la seconda guerra mondiale, da un buco che fece nella rete del confine italo-svizzero. Questa "attività" gli costò l'arruolamento e l'addestramento in Germania, ma anche qui non resistette e si mise, in segreto, ad aiutare i commilitoni.
Tutto ciò è una briciola di quello che l'Ambrosoli della famiglia delle famose caramelle al miele fece nella sua vita e di lui parlano più delle parole le immagini, le foto. E non ci sono musi lunghi in quelle scattate a padre Giuseppe, ai pazienti, al personale del suo ospedale e ai tanti che oggi, a 25 anni dalla sua morte a Lira in Uganda nel 1987, ne continuano l'opera all'ospedale di Kalongo. Gli scatti che vestono l'anniversario, in mostra al palazzo del Broletto di Como fino al 31 marzo, sono appese a mostrare ciò che si fa e si vuol fare in una zona d'Africa dispersa, ma popolata da 500mila persone.
Lo zio dei cugini Ambrosoli, Giovanna e Roberto, quando ogni due o quattro anni tornava dalla savana ugandese a Ronago, dove era nato, non arrivava sbuffando, né lasciando intendere ai nipoti bambini di lasciarlo in pace perché doveva riprendersi dalle fatiche dell'Africa. «Anzi - ricorda Giovanna, ora vicepresidente della fondazione Dr. Memorial Hospital fondata in nome del missionario - lo zio tornava e raccontava barzellette, era simpaticissimo, pieno di umorismo e ironia. A dire il vero non restava fermo a Ronago, era sempre in giro, noi lo vedevamo poco, tornava con la scusa di riposare, ma l'intento vero era quello di aggiornarsi, allacciando contatti con i medici dell'ospedale Sant'Anna di Como, di curare le relazioni nazionali e internazionali che gli sarebbero state utili per sostenere il suo ospedale. Gli serviva aggiornarsi perché in Uganda eseguiva interventi chirurgici di tutti i tipi. Ricordo però che faceva tutto in modo riservato, mosso da un vero spirito imprenditoriale».
E in effetti, il riflesso che il fotografo coglie negli scatti a Kalongo prima e dopo l'87 (padre Ambrosoli è arrivato in Uganda nel 1957) è quello di posti e persone sempre indaffarate a medicare, operare, pulire, costruire, coccolare i bambini africani, ma soprattutto, e questa è l'eredità di padre Giuseppe, a istruire gli africani.
«Salvare l'Africa con gli Africani» era la frase che lo connotava e che gli fece fondare, nel 1959, una scuola specialistica di ostetricia per africani che ora è la migliore d'Uganda e forma ostetriche richieste in tutta l'Africa. Ci teneva tantissimo padre Ambrosoli alla scuola, era convinto che solo un'alta formazione africana avrebbe potuto salvare gli africani. Ci teneva così tanto che riuscì, «senza fatica - spiega il nipote Riccardo - a convincere della bontà della sua opera tutta la famiglia, 8 fratelli, due ancora in vita. Lo sostennero tutti e ancora oggi da Ronago partono container con materiale per l'ospedale che ha 240 infermieri e 10 medici e costa un milione di euro l'anno, costi coperti in parte dal Governo ugandese, 20%, in parte dai pazienti, l'8%, il resto dalla fondazione». Sono numeri di bilancio che si leggono anche sulle foto della mostra: camici e veli bianchi sui sorrisi neri di infermiere, ostetriche e medici, sempre impegnati, anche quando negli anni 80 dovettero evacuare l'ospedale in meno di 24 ore a causa della guerra, per riaprire 3 anni dopo.
Oggi, dopo che padre Tocalli ha raccolto il testimone di padre Ambrosoli fino al 2009, sotto la guida del direttore Stefano Santini nei letti dell'ospedale di Kalongo ci sono 345 persone, si fanno 1500 interventi l'anno, si assistono 40mila persone e si formano manager con i volontari della Bocconi. «E ogni giorno scopriamo nuove persone di tutto il mondo - dice Giovanna - che ci ringraziano per l'aiuto ricevuto dallo zio».
(* A sinistra: l'ospedale di Kalongo. Elaborazione grafica di Rossella Bellei)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Documenti allegati
Eco di Bergamo Padre Ambrosoli