Cultura e Spettacoli
Martedì 06 Marzo 2012
La politica ci fa rinascere
Nuova lettura della Arendt
La filosofa Alessandra Papa ha ricostruito la teoria della "natalità" elaborata dalla pensatrice politica tedesca, mai affidata a un saggio. Mercoledì 7 marzo ne parlerà al Soroptimist di Como, in una conferenza al Teatro Sociale, di cui dà un'anteprima esclusiva ai lettori de "La Provincia".
Senza la politica non è possibile fare esercizio di alcuna libertà. È questo il lapidario monito di Hannah Arendt, pensatrice scomoda del Novecento estranea tanto alle ideologie quanto agli apriori teorici, che ci costringe ancora oggi e forse tanto di più a una riflessione critica sullo scempio della politica.
Politica che, nel suo significato più autentico, ha molto a che fare con il prendersi cura del mondo e ben poco alla somma con il potere e il dominio. Ha cioè molto a che fare con il nuovo e assai poco con un sistema ordinante. Una concezione quella arendtiana che ha come focus la categoria della natalità, che è poi il lascito più originale della fenomenologa tedesca anzitutto per la sua forte valenza critica rispetto alla tradizione. Nella nascita come cominciamento, imprevedibile e irripetibile, si inscrive proprio il nuovo nato con la sua unicità e la sua capacità «di dar luogo a qualcosa di nuovo, cioè di agire» e che pertanto non può essere escluso dai luoghi della politica. Arendt era molto sensibile in effetti alla questione generazionale: il "vecchio", per quanto saggio, deve farsi da parte e lasciare il campo ai giovani proprio perché nuovi.
Persino la filosofia con il suo millenario ripiegare sulla morte ha fallito, quando nei fatti, e già a partire dai greci, ha rinunciato al suo compito peculiare, quello di prendersi cura di ciò che comincia e viene al mondo, inteso quest'ultimo anzitutto come luogo delle relazioni e di scambio comunicativo, in cui si fa esercizio della libertà in tutte le sue forme proprio a partire dalla nascita.
Già Platone e Aristotele, secondo la fenomenologa, realizzarono una svolta antisocratica quando introdussero l'uso in modo univoco due termini greci, archein (iniziare) e prattein (condurre), rinunciando così a un esercizio autentico delle parole e perdendo definitivamente la dimensione partecipativa della polis.
Cosicché dall'idealismo platonico in poi la politica è stata intesa come un "dare comandi" e un mero ordinare. Ma per Arendt la politica ha davvero poco a che fare con il comando, dunque con il dominare e il condurre, così come con l'obbedienza cieca e acritica. Lo spazio pubblico, che è poi lo spazio della politica in cui si nasce e si entra in relazione, non può essere gerarchizzato tra chi comanda e chi obbedisce agli ordini, non può cioè essere diviso, ma necessariamente con-diviso. Piuttosto allora la politica arendtianamente deve intendersi come un ambiente comunicativo in cui gli uomini interagiscono usando le parole per definire la natura della loro relazione e stabilire legami e rapporti di appartenenza reciproca. La condivisione e la capacità di mediazione è perciò per Arendt una vera e propria obbligazione morale. Insomma si appartiene gli uni agli altri in virtù del fatto che si viene al mondo tra gli altri. In questo senso, proprio dagli altri non si può prescindere mai, né in nome del potere, o della ricomprensione di gruppi di interesse, né nel tentativo violento di dislocare il potere stesso nei luoghi che dovrebbero essere di esclusivo imperio della politica autentica e dove è anzitutto la condivisione e non il personale a decidere della bontà di un'azione.
Non si può allora pensare di esaurire la politica nel solo fare, prescindendo cioè dal dialogico, dallo scambio vocale e in definitiva dalla contrattazione.
Ma al di là di modelli forse non immediatamente proponibili nella pratica a cui la fenomenologa strizza l'occhio, un assunto fondamentale arendtiano è che la politica, come del resto la filosofia, non può essere allora ridotta a un fare tecnico e ordinato, proprio perché le parole vanno sempre condivise, vale a dire divise-con gli altri nati.
La politica ha cioè poco a che fare con il "to rule", termine inglese che sta a indicare il dominio, il governo e che implica un fare tecnico che prescinde dalla parola solidale e dall'azione linguistica, perdendo di vista la condivisione in nome di potentati e rischiando la degenerazione in mero potere. La politica - che in definitiva ha ben poco bisogno di homines faber, ma di "neoi", di nuovi - è invece, nel senso più autentico, e fuori dai modelli del professionismo, fatta da uomini capaci di dialogo, che stanno tra-le-parole, che hanno la capacità di tenere insieme le cose importanti, proprio in quanto condividono il fatto della nascita, dell'essere venuti al mondo tra gli altri. L'azione più politica si realizza dunque non già nell'ordinare, o nel governare nel senso più misero, ma nel discorso, nella capacità e nella bellezza di saper "trovare le parole opportune". Capacità che dovrebbe tanto di più risplendere in quelli che Arendt chiama i "tempi bui" della storia.
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