Cultura e Spettacoli
Domenica 08 Aprile 2012
Inimitabile Carmelo Bene
Quando recitò tutto Adelchi
A dieci anni dalla morte del drammaturgo, l'analisi del critico Alberto Longatti, secondo il quale soltanto oggi ci si accorge della capacità dell'artista di rivoluzionare il teatro italiano. Guarda un'intervista del 1994.
«In Italia basta voltarsi un attimo, e non si è più. Non si è più stati». Così la pensava Carmelo Bene, trascrivendo questa considerazione amaramente negativa nella sua bizzarra autobiografia, "Sono apparso alla Madonna", uscita da Longanesi nel 1983. Ovviamente, la mancata considerazione per le persone era rivolta soprattutto contro se stesso, il suo modo di essere, di comportarsi, di scrivere, di recitare, di far teatro e cinema.
E non a causa del suo sfrenato egotismo, ma per colpa degli altri che non lo comprendevano: e nel ritenersi vittima di un generale complotto ai suoi danni rivelava un fondo di ingenuità, disarmata a dispetto del cumulo di arrogante autocelebrazione che pareva una delle maschere baroccheggianti indossate durante qualcuno dei suoi spettacoli. «È un enorme bugiardo con un fondo di totale sincerità», diceva Gassman di lui, e in quei due aggettivi, «enorme» e «totale» indicava il suo gusto per il gigantismo del paradosso.
Sono passati dieci anni dalla morte di Bene (il 16 marzo 2002, ndr) ed è partita in Puglia da Bari e Otranto, sua città natale, la macchina delle rievocazioni, con una mostra retrospettiva che si propone di documentare un'attività davvero eccezionale e multiforme estesa nel corso di una vita non lunga. Si propone, dicevamo, perché si tratta di un compito non facile. Esistono i film e le registrazioni di alcune performances sceniche e di letture, grazie soprattutto alle Teche della Rai che conservano molte utili interviste ed esibizioni pubbliche, oltre ad alcuni libri, ma si tratta di materiale che riesce a dare una documentazione insufficiente di quanto ha dato una delle personalità più irruenti ed originali del mondo dello spettacolo italiano.
Ora, nel ricordarlo, anzi nel commemorarlo perché il tono è quello delle celebrazioni, si rimarcano gli aspetti principali di una prorompente individualità, si sottolinea giustamente l'abilità tecnica delle sue modulazioni vocali, ma si tende a sottacere il lato negativo del suo voluto isolamento, della sua ostentata lontananza dagli operatori culturali, e si omette di ricostruire come su di essi rovesciasse quotidianamente un fiume incontenibile di male parole. Un uomo scomodo, non c'è dubbio, e inamabile. Tuttavia è giusto riportare alla luce quel tanto delle sue teorie sul teatro che hanno influito positivamente sullo svecchiamento di formule recitative ormai stantìe, sulle convenzioni inutili delle "messinscene", termine che lui odiava, non a torto, perché gli pareva vessatorio nei confronti del copione e degli attori. Il suo teatro, così spoglio ed estremista, tetro e provocatorio, carico di simboli e allusioni, proveniva da un maestro della recitazione «a metà strada fra gesto e pensiero» quale fu Antonin Artaud con il suo "Teatro della Crudeltà". Le parole scarnificate, scagliate contro il Nulla in una sorta di delirio demistificatorio da Artaud divennero nella versione di Bene più forme sonore che termini significanti, echeggiati in un universo vuoto, dalle ripercussioni arcane, simili ad una sorta di dodecafonia prosastica, ad uno Schönberg che componesse e scomponesse vocaboli sulle righe qualunque di un quaderno anziché note su un pentagramma.
Ricordo quando lo sentii recitare poesie sul palcoscenico del Teatro di Lecco, accanto a un amico che digrignava i denti perché odiava l'anticonformismo recitativo, quei suoni dilatati e trascinati in un "continuum" vocale certo ben ostici alla dizione scandita della vecchia scuola.
Ma fu in occasione di un evento straordinario, la rappresentazione dell'"Adelchi" manzoniano in forma di concerto a Milano, in occasione del bicentenario della nascita di Don Lisander, che compresi come dovesse venir giudicato questo mostro che predicava le regole della sregolatezza. Partecipai dapprima con alcuni critici teatrali ad un incontro con l'attore/regista a Palazzo Marino, perché il Comune aveva patrocinato lo spettacolo, di cui nessuno sapeva qualcosa. Carmelo Bene, capelli tinti color mogano e viso impenetrabile, rispose alle domande di un critico più insistente degli altri, con qualche borbottìo e sentenze più riferite al manzonianesimo che allo spettacolo. Era evidente che non gli importava un accidente di noi. E uscimmo tutti senza aver compreso quale fosse il vero progetto che aveva in testa.
Arrivò il giorno del debutto al Teatro Lirico, 23 febbraio 1984. Lo spettacolo, rivelavano i dépliant, era di Carmelo Bene e Giuseppe Di Leva, musiche di G. Giani Luporini, orchestra e coro della Rai diretta da Enrico Collina, percussioni dal vivo di A. Striano. Accanto a me era seduta Ornella Vanoni, che mi sembrò scettica sull'esito della prova. Finalmente, l'inizio. Da solo in scena, l'imperturbabile Carmelo: da solo a interpretare tutti i personaggi dell'Adelchi, Ermengarda compresa, con qualche complemento musicale a fungere da supporto. Non ne aveva bisogno, del resto. Il pluriprotagonista usò la sua voce come uno strumento musicale, anzi come un'orchestra, soffiando, sussurrando, invocando, proclamando, pregando con mille inflessioni, una miriade di iridescenze vocali. Allora intesi, come tutti i presenti, che si trattava di teatro d'eccezione e non di antiteatro, capace di offrire d'un tratto ciò che solo il teatro può creare dal vivo. Quello era il Carmelo Bene autentico, senza alterigia, che dava il meglio di sé, celando forse, nello spendersi sulla scena, un inconfessato brivido di fragilità interiore.
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