Tesoro del Duomo
Svelato l'enigma

Sappiamo chi realizzò il Paliotto Volpi, uno dei tessuti ricamati più preziosi della Cattedrale, risalente al 1630. Il merito va ascritto a Francina Chiara della Fondazione Ratti e a Magda Noseda dell'Archivio di Stato, autrici di una scoperta davvero straordinaria. E avventurosa... Ecco il saggio, in versione integrale, della Noseda. Guarda la fotogallery del Paliotto di Como e di quello "gemello" del Novarese.

di Magda Noseda 

Questa è la storia di una ricerca piuttosto fortunata, fatto raro per lo studioso. La maggior parte delle volte infatti si trova quello che “non” si cerca, ma “non” si trova quello che si cerca.

Il merito di un finale tinteggiato di rosa tuttavia non è, se non in minima parte, del ricercatore moderno ma è da ascriversi ad una combinazione di fattori: primo fra tutti la volontà, l'occasione, la necessità di un nostro qualsiasi progenitore di “raccontare” le testimonianze a lui coeve e secondo la “conservazione” fino ai nostri giorni delle testimonianze.

E' accaduto così che dai carteggi conservati nell'archivio storico della nobile Famiglia Volpi di Como (93 buste di proprietà del Comune di Como ma conservate dal 1947 presso l'Archivio di Stato), ma non solo in quelli (anche dai Fondi Ex Museo, Archivio Giovio, Atti dei Notai), sia emersa una piccola storia di manufatti artistici (ricami auroserici) conservati l'uno nella Cattedrale di Como, l'altro nella diocesi di Novara.

Ma perché proprio a Novara? Perché ben quattro vescovi di questa città furono cittadini comaschi: i primi due provenienti dalla famiglia Volpi (Volpiano e Giovan Pietro, il protagonista della nostra storia), i secondi due (in ordine temporale) membri della famiglia Odescalchi (Benedetto, il futuro pontefice Innocenzo XI e Giulio Maria). Dal 1619 al 1666 con una sola interruzione di meno di 13 anni (ne rimangono ben 47) la diocesi di Novara fu governata dai Comaschi.

Tutti i citati personaggi meriterebbero una biografia per l'importanza che ebbero in entrambe le città, per il ruolo sociale ed ecclesiastico, per la varietà e ricchezza del loroentouragee delle conoscenze nel mondo che “contava”. Tuttavia è Giovan Pietro Volpi che questa volta emerge dall'oblio, anche per merito di un suo discendente prossimo, Giuseppe, il quale ha sentito il bisogno di scrivere in un bel codice cartaceo con coperta in cuoio settecentesco inciso a rombi, chiuso da un fermaglio metallico la “Serie della descendenza della nostra famiglia di generazione in generazione…”.

Nel manoscritto fra tutti i Volpi viene tracciata anche la vita di Ippolito (padre del vescovo Giovan Pietro), degli undici figli da lui fatti generare a Eleonora Odescalca sposata quando egli era ventiquattrenne, di quanti e quali (soprattutto le femmine) fossero morti infanti e del quarto figlio Giovan Pietro nato l'11 maggio 1585 alle ore 10 che nel 1622, all'età di 37 anni, divenne coadiutore dello zio Volpiano vescovo di Novara e poi suo successore. Morì improvvisamente a Borgomanero il 12 settembre 1636 ove si fece trasportare dall'isola di San Giulio, luogo in cui cominciò il male che fu violento (forse un infarto: aveva 51 anni di età ma era descritto di corporatura assai pingue e molto soggetto alla podagra di modo che faceva le funzioni con difficoltà). Il nostro cronista racconta che: “ha donato alla cappella della Beata Vergine del nostro Duomo [di Como] un bellissimo paliotto di altare di nobile ricamo fatto dalle monache di San Giuliano, tra le quali vi lavorò molto la madre Ponga allora vivente in quel convento…”. Uno storico novarese invece ha tramandato che l'altro paliotto della Chiesa di Novara era stato ricamato dalla sorella del vescovo. Ma come possibile ciò se Lucrezia “prima” era morta all'età di pochi giorni nel 1586, Lucrezia “seconda” egualmente nel 1588, Antonia Cecilia a 7 anni nel 1601, mentre la sola Marta Benedetta era divenuta moglie di Baldassarre Lambertenghi? Non sembra proprio esistere una “sorella” monaca che potesse ricamare almeno il paliotto serico di Novara, tanto più che la sola monaca “Volpia” rintracciata in quel periodo  è suor Antonia Benedetta al secolo Pompilia Volpi figlia di Antonio che entrò, guarda caso, proprio nel monastero di San Giuliano nel 1642. Ma a quella data  Giovan Pietro (suo zio) era morto da circa 6 anni e, pertanto, anche lei non poteva essere la “ricamatrice”del paliotto di Novara che era stato “consegnato” al capitolo dei canonici,  riuniti al completo nella sacrestia della collegiata di San Giulio d'Orta, giovedì 27 ottobre 1639 da parte dei procuratori degli eredi Volpi dietro rilascio di “ricevuta” che si conserva insieme con altre rilasciate ai fratelli Benedetto e Antonio Volpi per la consegna di numerosi quadri alla Fabbrica della Cattedrale di Novara fra cui “un Ancona di Gaudentio [Ferrari] d'una Madonna con il figlio et santa Cattharina” (documento nell'archivio Volpi busta 10 fascicolo 10). Ma allora con una buona dose di probabilità la “sorella” citata dal cronista novarese era in realtà da intepretarsi nel senso di “suora” e avrebbe potuto essere la stessa madre Ponga di San Giuliano. E' sempre Pompilia che ci conduce sulle tracce della ricamatrice madre Ponga (o Pongoni, appartenente ad una famiglia patrizia comasca con antenati “decurioni” dal 1357 fino proprio ai tempi della monaca, l'ultimo fu Giovanni Plinio eletto nel 1645). Infatti quando entra come novizia nel monastero di San Giuliano Pompilia è accolta dal capitolo delle monache fra le quali (nel 1642) era vivente Virginia (ecco il nome di battesim completo: Angela Virginia). Per ora le ricerche non hanno dato frutto riguardo alla paternità di Virginia, e neppure per una sua più completa biografia, tuttavia si sa che i Ponga erano imparentati con i Volpi tanto è vero che una parte dei beni immobili dei primi è confluita per eredità nei secondi e che Lucrezia Ponga era la madre di Ippolito e quindi la nonna di Giovan Pietro. Virginia, l'abile ricamatrice era ancora vivente nel 1657 (in quell'anno muore Benedetto Volpi -9 marzo- abate di Sant'Antonio e fratello di Giovan Pietro. Gli esecutori testamentari si recano il 12 marzo successivo al monastero di San Giuliano e la fanno chiamare in parlatoio perché hanno saputo che presso di lei Benedetto aveva depositato il suo chirografo. Notizia veritiera dal momento che prontamente la madre lo consegna nelle mani del notaio e degli esecutori), è anche ritenuta persona assai stimabile e degna della massima confidenza e considerazione (l'episodio del chirografo è molto eloquente) ma soprattutto è “detentrice” di un'arte o mestiere a quei tempi per la maggior parte riservato ancora in esclusiva al sesso maschile. Nei contratti di apprendistato o “pacta ad artem”, da cui la parola moderna artigiano, il 99% dei contraenti, oltre il maestro, era rappresentato da giovani “garzoni” messi a bottega dai parenti. Pochissime erano percentualmente le donne: potevano essere altrettanto abili ma autodidatte e raramente messe a bottega per imparare una professione. La nostra Virginia invece, pur monaca e apparentemente esclusa dalla società civile e ancor più commerciale, dimostra di avere raggiunto una professionalità assai alta (tanto da essere scelta da tali personaggi che avrebbero potuto assoldare qualsiasi bottega di professionisti). I suoi manufatti, di cui fu esecutrice e forse “progettista”, sono sopravvissuti a quasi quattro secoli, ma quali furono i suoi maestri, dove la scuola o apprendistato? Forse a questi interrogativi non sarà mai dato di potere rispondere.

 

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Eco di Bergamo PALIOTTO VOLPI