Cultura e Spettacoli
Martedì 10 Febbraio 2009
Sanquirico, dalla Scala all'Europa
passando per il velario del Sociale
Adorato dal pubblico, l'autore della grande opera nel teatro lariano, fu poco amato dal suo ambiente
Alberto Longatti
Stendhal era un entusiasta, si sa. Dell’Italia, di tutte le bellezze del Bel Paese, di Milano in particolare. E alla Scala non perdeva uno spettacolo, deliziandosi per la musica, i cantanti, gli allestimenti. Definiva gli scenografi scaligeri «dei grandi pittori» e «divine» le loro realizzazioni, accomunando nell’elogio tutti gli artisti usciti dalla scuola di Paolo Landriani, Giovanni Perego e Alessandro Sanquirico prima di ogni altro. Ma proprio sul Sanquirico, destinato a diventare, fra il 1817 e il 1849, anno della morte, il vero dominatore di ogni realizzazione dell’arte scenica e dell’apparato decorativo di ville patrizie in Europa, Stendhal avanza sorprendentemente nel 1818 qualche riserva, imputandogli «una certa fiacchezza soprattutto nei secondi piani, che sembrano a metà velati da nebbia» (Pages d’Italie, frammento 31). Perché questa critica sulle coloriture, che secondo lui mostrerebbero «rocce troppo bianche» e «verdi non verdi, ma grigioazzurri»?
Le scenografie scaligere
Nel 1818 era da poco scomparso il Perego, folgorato da un malore a soli 41 anni, e Sanquirico aveva deciso di guidare da solo l’enorme lavoro delle scenografie scaligere (circa 120 in un anno) e degli altri teatri milanesi, il Carcano e la Canobbiana, senza tralasciare altri lavori di pittura, d’incisione, persino di vero e proprio disegno architettonico, appreso in Brera alle lezioni di geni come Piermarini e Pollack. Ma il suo frenetico attivismo dovette suscitare non poche invidie, tanto che ci furono delle malelingue pronte a insinuare che il materiale lasciato dal Perego, famoso per essere finissimo disegnatore, era finito nelle mani del collega più fortunato, che se ne sarebbe approfittato al punto di riversarlo tal quale nel suo lavoro. Era un pettegolezzo diabolico, ma sciocco: il Perego come poteva sapere quali sarebbero stati i melodrammi da rappresentare o i coreodrammi di Salvatore Viganò (1769-1821) programmati alla Scala dopo la sua morte? Eppure, lo Stendhal fu influenzato da queste maldicenze al punto di criticare colui che fino a quel momento aveva giudicato un maestro insuperabile.
Criticato dai colleghi
Diciamo la verità: Alessandro Sanquirico, l’ultimo esponente della tradizione scenografica italiana che aveva dominato nel vecchio continente per quattro secoli, durante tutta la sua laboriosa esistenza (Milano 27 luglio 1777- 12 marzo 1849) riscosse l’entusiastica approvazione di teste coronate e del popolino, ma non dei colleghi né degli impresari né tantomeno dei finanziatori di teatri. Il presenzialista Stendhal, cronista puntiglioso, osservava che alla Scala non erano certo spendaccioni, tanto da pagare ai pittori non più di venti zecchini per scenario: e quando Sanquirico si decise a troncare il suo rapporto continuativo con la Scala, pur mantenendo un’attiva consulenza, non mancò di inviare al nuovo impresario del 1832, il duca Carlo Visconti di Modrone, un’aspra lettera che lamentava l’esiguità dei compensi per una fatica che non si limitava certo alle pitture sceniche ma si doveva sobbarcare l’intero macchinismo degli spettacoli. Che magra gestione, scriveva, quella che agisce «sotto il segno del risparmio e sotto gli auspici d’infinite economiche innovazioni, di grette riforme e mill’altre angherie».
È la solita antica vicenda del mancato riconoscimento di un valore acquisito per seguire criteri di un poco fruttuoso risparmio. Tant’è vero che alla Scala i collaboratori dell’artista dovettero ricorrere all’aiuto del maestro in più di un’occasione, perché soltanto la sua esperienza e soprattutto la sua creatività li salvarono da brutte figure. Il Sanquirico si prese così la sua rivincita, nel frattempo eseguendo affreschi, decorazioni in dimore patrizie, addobbi per feste pubbliche, completando una serie di splendidi disegni neogotici per il transetto e il tornacoro della cattedrale di Milano (purtroppo cancellati durante i restauri eseguiti dal 1968 al 1972). Girò l’Europa, entusiasticamente accolto e coperto di onorificenze in Francia, Inghilterra, Austria, Ungheria, ma si assicurò pure che rimanesse una tangibile testimonianza delle sue più radiose scenografie scaligere, curando diverse raccolte di litografie colorate a mano e acquetinte che riproducevano fedelmente costumi e messinscene di una carriera inimitabile.
L’eden lariano
Nel territorio lariano aveva il suo eden per le vacanze. Nel 1908 affrescò le pareti di una sala di Villa Melzi a Bellagio con paesaggi, nel 1813 dipinse il velario del teatro Sociale a Como, forse con la collaborazione del Perego come lasciano intendere alcuni passi di un carteggio, nel 1830 realizzò un olio raffigurante un ricevimento «nel parco di villa Sommariva» poi villa Carlotta, e proprio in quel periodo acquistò una villa a Tremezzo (sita fra il Grand Hotel Tremezzo e Villa Carlotta, oggi adattata a condominio), per ospitare gli amici nei periodi di riposo, tra i quali Giuditta Pasta: alla "divina" cantante dedicò, fra l’altro, una delle sue raccolte di incisioni. Nello stesso anno realizzò il velario del teatro di Canzo, accettando per compenso la nomina di membro onorario del sodalizio dei fondatori. Non era dunque avido di denaro, quest’uomo «giovialone di carattere, oriundo di famiglia nobile e consanguinea ai Ghislieri» da parte del padre piemontese, come annotò il suo principale biografo, Luigi Zuccoli (1849). Un signore, che lasciò in eredità al nipote Carlo un patrimonio di cinquecentomila lire.
Il mistero della morte
Ma anche la sua morte non passò sotto silenzio. All’età di 72 anni era ancora prestante, in ottima salute. Ma un giorno, mentre stava dipingendo nello studio della sua abitazione milanese in via Bocchetto, venne colto da una crisi di soffocamento dopo aver bevuto un liquido che teneva sullo scrittoio. Chiamò aiuto a cenni, i familiari gli prestarono le prime cure, ma invano. «Il fatale e repentino avvenimento sbalordì l’intera città, diede pascolo alle dicerie e alle supposizioni di molti», scrisse Francesco Regli nel suo prezioso Dizionario biografico(Torino, 1860). Carlo Dossi, nelle sue succinte ma precise Note azzurre non ebbe dubbi: è stato avvelenato. È possibile che si sia trattato di un tragico errore, che l’artista abbia scambiato un flacone contenente un solvente venefico da pittura per una boccetta di cordiale? In un ambiente domestico, dove ogni oggetto era a lui ben noto? Domanda inquietante, che non ha mai trovato una sicura risposta: un’altra ombra, l’ultima e la più fosca, in un’esistenza così favorita dalle luci della ribalta.
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