Cultura e Spettacoli
Giovedì 19 Febbraio 2009
Lombardia, terra della maschere
Il burattinaio Ivano Rota racconta la storia del suo Truciolo
Dopo qualche anno il suo testolino pelato si era coperto di morbidi boccoli castani, così, come se fosse inevitabile lo soprannominò Truciolo, perché quei riccioli gli sembravano in tutto e per tutto i trucioli che uscivano dal suo vecchio pialletto di legno. All’età giusta preparò tutto per averlo con sé in bottega: gli fece confezionare un bel camice su misura con della stoffa marrone, robusta; gli infilò un matita sulle orecchie a sventola e lo avvezzò pian piano all’odore guasto della colla calda sul fuoco. Ma ahimè, di una cosa ul sciour Pepìn non tenne conto: Truciolo, di fare il falegname non aveva idea.
Non si sapeva bene cosa volesse fare ma di una cosa era certo: l’odore di quella colla gli faceva male! Non la digeriva!
E quando il genitore montava su tutte le furie e pretendeva una vera ragione, il monellaccio allora incominciava a dire di voler fare questo oppure quello, comunque non di certo ammuffire in bottega accanto a quella puzza! Un caldo pomeriggio di luglio poi, tornato a casa dall’oratorio dopo aver visto una brillante commedia in puro vernacolo, si convinse veramente di aver trovato ciò che faceva al suo caso.
Quella sera a cena con ingenuo entusiasmo prese ad accennare appena al fatto che già la madre, preoccupata, fece per azzittirlo con gli occhi ma il padre, con veemenza, cacciò un tale pugno sul tavolo che l’onda d’urto fece tremare i piatti nella piattiera.
«Da quella cosa lì, dalla Chiesa e dalla politica devi stare alla larga». Perché lui, gli gridò, alzando tutto il corpo quasi a coprirlo, ne aveva vista di gente rovinata. Suo padre, ul sciour Pepìn, gliele aveva cantate di santa ragione.
Solo anni dopo si accorse, ripensando a quella faccenda per caso, che quello era stato l’inizio della incomprensione che si era insinuata nei loro cuori e che affiorava lì, nei loro sguardi: un senso di disagio che mai più avrebbe permesso loro di guardarsi liberamente negli occhi. Ma allora, tutti e due avevano preso la cosa sotto gamba e ognuno andava avanti per la propria strada: il signor Giuseppe, per il momento lo aveva ancora con sé in bottega e sperava che la passione d’un tratto venisse a galla; d’altra parte aveva alle spalle suo padre e ancora prima suo nonno e prima ancora il papà del nonno che aveva smesso di fare il contadino per diventare falegname, e ciò gli dava una grande fiducia; il ragazzotto invece, l’Andrea, coltivava in silenzio quella prima passione e in cuor suo si convinceva sempre più che magari un giorno sarebbe diventato un grande commediante.
Fu così che il rapporto tra padre e figlio in bottega diventò un cinema. Truciolo con la malavoglia e senza la giusta convinzione non apprendeva nulla: anche segare un’asse era un’impresa! La sega, ogni volta s’impuntava e il padre ogni minuto di più s’imbestialiva.
Urla e insulti si udivano fin nel cortile ed il padre aveva ragione, giacché il figlio per nulla intimorito osava addirittura sonnecchiare sul bancone di legno col martello nella mano.
Ul sciour Pepìn una mattina di un non precisato anno, al colmo della disperazione, gli ordinò di metter insieme i pezzi di un armadio, semplice semplice!,che gli aveva preparato.
E doveva eseguire il lavoro da solo in quanto lui doveva, una volta tanto, assentarsi di bottega e recarsi al castello del paese, al castello dei Pietrasanta, quello che dava sulla Piazza Granda e glielo disse, questo ultimo fatto, dandosi un certo tono, perché là lo aveva voluto certa gente facoltosa, che aveva bisogno di un falegname! E se ne era andato.
Truciolo una volta tanto avrebbe voluto accontentarlo. Passò le mani sulle spalle lisce del mobile, vide il fondo e ridacchiando non lo scambiò per il cappello ma di eseguire l’ordine non ci pensava.
Mettere assieme quei pezzi gli dava noia. Pensò comunque che la notte era trascorsa in un sonno profondo e di sonnecchiare ancora fino a mezzogiorno gli pareva male, tant’è che non si sa come ma gli passò davanti un lampo.
Intanto che era solo si sarebbe costruito dei bei trampoli, come quelli che aveva visto usare da un acrobata alla fiera di Santa Apollonia!
E siccome quegli aggeggi erano lunghi e senz’altro solidi, non ci pensò due volte e prese un’asse nuova, da quattro metri, la tagliò in qualche modo non sapendo neanche che fosse di noce.
Al primo taglio, dalla circolare uscì un listello che non avrebbe neanche retto il peso di un lattante; al secondo era partita quasi mezza tavola: allora riprese il pezzo tagliato, per raddrizzarlo ne buttò mezzo e di ciò che restava si convinse di farne due.Non capì come ma se da quel pezzo partì dal centro, dopo aver ben misurato col metro, quando finì si trovò allo spigolo destro. Rammaricato, si chiese come mai avrebbe fatto ad essere un falegname.
La sensazione di essere un incapace e l’immagine di quell’acrobata lassù in alto, a barcollare in un equilibrio sconosciuto, lo facevano sentire la stessa cosa: neanche buono di muovere un dito.
Ivano Rota
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