Cultura e Spettacoli
Lunedì 23 Febbraio 2009
Serbo, genio e riservatezza
Un futurista a La Provincia
Lavorò come redattore al nostro quotidiano fino al 1987. Fu il "più giovane futurista d'Italia" e Marinetti disse di preferire il suo pensiero a quello di Benedetto Croce
Era stato «il futurista più giovane d’Italia», certificazione d’autore della massima autorevolezza, essendo stata coniata nientemeno che da Filippo Tommaso Marinetti, in occasione di una leggendaria serata patavina, al Caffé Pedrocchi, nel ’41. Una serata fatta di declamazioni di poesie, provocazioni e intemperanze varie, come d’abitudine per siffatte accolte futuriste. Con l’aggiunta, da parte di Sua Eccellenza Marinetti, che il beneficiario in questione era addirittura «di ingegno superiore a Benedetto Croce", affermazione questa che aveva sortito l’effetto di far traboccare il vaso, suscitando ilarità e sdegno nel pubblico presente alla focosa radunanza, già abbastanza inferocito per il fatto che il nostro giovane aveva avuto a dir poco l’impudenza di attaccare con un "La Vispa Teresa...".
«Il futurista più giovane d’Italia»: come dire il Futurista per antonomasia, quello lanciato come un ponte sull’Avvenire Radioso e Tempestoso dei secoli. Per un’ideologia che privilegiava l’idea del Nuovo ad oltranza, dell’assoluta Giovinezza di ogni ardimento e di ogni realizzazione, questo era indubbiamente l’avallo degli avalli, la sigla e la cifra da poter decidere di una vita. Così come poi era avvenuto. «È difficile che uno si dimentichi di essere futurista", proclamava con fierezza anche a distanza di anni. E si badi al presente di quell’"essere futurista».
Stiamo parlando di Ubaldo Serbo, che i Comaschi e i lettori de "La Provincia di Como" ben ricorderanno come persona mite e discreta e come firma autorevole delle pagine della cultura del quotidiano per ben oltre un quindicennio, fino al 1987, data del suo pensionamento. Poco più che trilustre vate (essendo nato nel 1924), l’investitura a «futurista più giovane d’Italia» l’"aeropoeta" triestino-vicentino se l’era sentita affibbiare dall’Imperatore del Futurismo in persona e il fatto l’aveva caricato di orgoglio ma anche di una grande responsabilità, tale da conservarne l’impronta in tutta quanta la sua attività di studioso e di artista. Attività iniziata molto precocemente a 15 anni e che si è nel tempo concretizzata in saggi sul futurismo (ne cito uno molto interessante su "L’Aeropittura e l’Arte Sacra futurista"), interventi a convegni (ne ricordo uno, a proposito di "Malombra", nel Convegno dedicato a Fogazzaro negli Anni ’80 dall’Amministrazione Provinciale, a Villa Gallia) e soprattutto una notevole produzione poetica (pubblicata dall’editore udinese Campanotto, 2007), che ancorché poco nota al grande pubblico è andata di pari passo col suo quotidiano lavoro di giornalista a Vicenza dapprima e poi a Como. «Ma il giornalismo rappresentò per lui solo una possibilità d’impiego: la sua vocazione era infatti di natura letteraria», ha ricordato Alberto Longatti in un articolo commosso pubblicato all’indomani della sua scomparsa, il 28 maggio 2001.
La fama, o almeno il riconoscimento, ha comunque tardato a raggiungerlo, anche se qualche segno lascia intuire che la sua non è stata un’inutile fedeltà («L’anima futurista è in me sempre viva perché rappresenta i sogni e gli entusiasmi della mia giovinezza» amava dire). A riprova di ciò, scorrendo l’elenco delle celebrazioni, che si stanno svolgendo a Roma per il Centenario del Manifesto del Futurismo, se ne incontra una, "Serata Futurista per un Teatro del Futuro", con la regia di Piergiorgio Piccoli, in cui è inserita la declamazione di due suoi testi (In tuffo sulla città e Poema del rapido che canta in galleria, entrambi del ’41), che sono proprio quelli che ne avevano probabilmente segnalato l’ingegno a Marinetti. Un "ingegno superiore a Benedetto Croce": affermazioni che lasciano il segno, davvero, e pronunciate non solo in vena di scandalizzare. Frasi dettate sì da intenti polemici ma che decidono una vita e un destino, da portarsi addosso, ancorché con abito di schiva modestia. Fedele alla poesia e alle amicizie (ai pittori Wladimiro Tulli, Corrado Forlin, Tullio Crali). Fedele alla memoria del suo antico mentore Marinetti, al punto da dedicargli un testo, "Poema e pianto per F.T.Marinetti", («F.T.Marinetti ha mille vite prodigiose e le regala con generosità solare»), in cui ne viene rievocata la figura nello scenario bellagino dove il poeta morì allo spirare di un grigio dicembre di guerra, nel ’44.
A dispetto di ciò, a Como, pochi sembra che se lo ricordino in veste di poeta o di conferenziere, anche se la sua cultura e certa sua verve discreta non passava inosservata. Eppure, certi testi come In tuffo sulla città, ispirato a un quadro omonimodell’aeropittore Crali (In tuffo sulla città / CANTO RIDO GRIDO RRROMBO URRRLO / scendoscendo nell’abisso / dell’aerovoluttà / MI TUFFO SULLA CITTÀAAA), L’aeropoema del pubblico futurista e soprattutto La canzone delle mille gru, un toccante inno alla pace e una condanna a tragedie come quelle di Hiroshima, meriterebbero ancora di essere letti e non solo come testimonianze di una sensibilità di un’epoca. Per questo sentire, come mi è capitato recentemente, che qualcuno (anzi, qualcuna...) in una scuola media di provincia, a Lomazzo, ne faccia ancora leggere e studiare con commozione proprio l’ultima lirica citata, ossia La canzone delle mille gru con la toccante storia di Sadako che "diventa una bianca gru di carta che / cerca la pace e vola vola nei cieli del mondo", è quanto mai sorprendente e consolante. Serbo ne sarebbe felice e lo considererebbe non solo come un munus amicitiae, il tributo a un commercio profondo di sentimenti in un’epoca a tutt’altro adusata.
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Una cultura sterminata
con la passione del belcanto
di Bernardino Marinoni
Curioso: a chi era giovane, conoscendolo dava l’impressione di essere anche un po’ più anziano della sua età: vagamente macilento, sempre con giacca e cravatta, lo si sarebbe detto un passatista, anche in forza del riserbo. Parola sulla quale, poi, conoscendolo davvero, Ubaldo Serbo sarebbe stato capace di celiare, come sapeva fare argutamente, con quell’inflessione vicentina nella voce, una volta rotto il guscio. Passatista invece era termine desueto, o quasi. Perché quando, anno 1968, Luciano De Maria curò per Mondadori quel «Teoria e invenzione futurista» che raccoglie dai manifesti alle parole in libertà di Martinetti, Serbo sorrise, anche se dei suoi trascorsi futuristi, di più giovane poeta, laureato da F.T.Marinetti in persona, del movimento, continuò a non fare parola e pochi sarebbero riusciti ad estorcergliene (giusto una sera, in una minuscola galleria d’arte comasca nel frattempo scomparsa, un aeropittore triestino, Tullio Crali, compagno di giovinezza di Serbo, lo costrinse a manifestarsi: chi c’era, non può averlo dimenticato). A «La Provincia», giornalista un po’ per amore e un po’ per campare, comunque uomo di tipografia a caldo (in difficoltà con la macchina per scrivere non avrebbe retto l’avvento dell’informatica: giunse appena prima, per fortuna, la quiescenza) Ubaldo Serbo aveva un circoscritto ambito di competenza. Pur non essendo titolare della critica musicale, gli veniva delegata la stagione lirica del Sociale, che seguiva puntualmente con la sensibilità derivante anche da una cultura sterminata. Davvero curioso: un dovere ossequiato da uomo - gentiluomo - del passato, si sarebbe detto; però erano ancora stagioni d’opera dove qualche scarto critico poteva suscitare un minimo barbaglio, un’eco, a saperla sentire, del Serbo che fu futurista.
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