Cultura e Spettacoli
Venerdì 13 Marzo 2009
Premiopoli, la parola ad Andrea Vitali:
"Mi vorrebbero allo Strega, però..."
Due lariani illustri riflettono sullo scandalo del premio Grinzane
L'analisi dello scrittore italiano più letto e di Mario Fortunato, autore e giurato dello Strega
Affronto l’argomento col patema di un compito in classe. D’altronde non si tratta d’altro: «Parlate dei premi letterari». La tentazione, all’inizio, è quella di darmi un mezzo pugno sul naso, come facevo al liceo, sfruttando la debolezza di certe varicette nasali che sanguinavano quel tanto da consentirmi di passare nei cessi dello stesso una mezz’ora, esentandomi da compiti o interrogazioni.
Ma l’orgoglio e le varici che, con l’età, si sono seccate, mi proibiscono di ricorrere a questo espediente. Tanto più che vedo alcuni dei miei compagni di classe che, a testa bassa, sono di già partiti a scrivere. Sono forse da meno io? Sì. Infatti dei premi letterari non posso dire che bene. A cominciare dal primo, il MontBlanc del 1989 per il romanzo giovane, che, oltre a un contratto di edizione, mi mise in tasca anche un assegnuccio col quale potevo risolvere un debito contratto mesi prima con mio padre per acquistare la seconda macchina della mia vita. A latere e anche se non c’entra: il genitore prese atto della mia buona volontà e mi abbuonò il debito mentre della macchina, una Fiat Uno diesel nera, tocca dire che morì, fondendo il motore, per carenza di manutenzione. Era una domenica mattina di sole e io stavo salendo verso la montagna. Col secondo premio della mia vita, il Chiara del 1996, la soddisfazione fu, più che economica, morale. Sorta di Davide, il libro era stato pubblicato da un piccolo editore lecchese, battemmo in finale il gigante Einaudi, cioè Golia per mantenere il paragone, e la serata conclusiva diede al mio editore e a me l’impagabile emozione di stare gomito a gomito coi Dik Dik, cooptati per l’occasione a intrattenere il pubblico coi loro pezzi sempreverdi: due in sala si addormentarono, per il resto applausi scroscianti. La terza tappa di questo viaggio a Premiopoli per me significa Grinzane-Cavour: terza come l’ultima delle cadute di Nostro Signore verso il Calvario e il paragone in questo caso non potrebbe essere più azzeccato, viste le cronache. Tuttavia, per quanto mi riguarda, non ci fosse stato il Grinzane non avrei mai avuto l’opportunità di cenare insieme con Mario Vargas Llosa mentre Luis Sepùlveda non avrebbe avuto l’altissimo onore di salire con l’ascensore insieme con mia moglie per raggiungere la sua camera d’albergo: dentro la quale, naturalmente, entrò solo com’era. A fianco di questi premi, non posso non ricordare il Dessì, nell’aspra terra sarda dove nacque la figura del brigadiere Mannu, l’Hemingway in quel di Lignano Sabbiadoro che mi restituì il gusto di scorazzare in bicicletta e il Boccaccio che, premiandomi per "l’opera omnia" , tornò a lisciare la vanità della Modista da poco trombata all’ultima selezione del Campiello. Poiché non si deve credere che solo i premi vinti danno soddisfazione ma anche quelli persi. In ogni cosa c’è un lato positivo e ben lo sa, ad esempio, la signorina Tecla Manzi, trombata, finalmente, alla selezione finale del Campiello di qualche anno fa. Dico, non è una soddisfazione questa, dopo una vita passata nella più stretta continenza? Meno contenta fu Anna Montani, appunto la modista, trombata pure lei l’anno passato in quel di Padova e a pochi metri dal traguardo finale. Lezione meritata però, in fin dei conti: perché andare così lontano a sperperare le sue grazie, perché non dispensarle a noi, poveri provinciali che di bellezze non abbiamo certo la ricchezza di cui si può vantare la città? Riguardo ai premi, il mio editore lo sa bene, ho una precisa posizione: se arrivano sono contento, se non arrivano sono contento lo stesso. Non sono scemo, non ho perennemente il sorriso sulle labbra: è che per uno scrittore il premio vero è il libro, e l’editore che ci crede, e il pubblico che lo legge. Il resto è un di più, grasso che cola direbbe un macellaio di qualche mia storia. Chiudo questo semiserio giro tra i premi vinti e perduti della mia vita con l’apprendere dal Corriere della Sera che il mio editore ha dichiarato che il professor Tullio De Mauro, il "mio" vocabolario, vedrebbe di buon occhio la mia candidatura allo Strega prossimo venturo. Però, aggiunge il capace Stefano Mauri, non vorrebbe che ci andassi a fare da contorno. Capisco le sue ragioni. Ma, se dovesse anche capitare, mica ci resterei male: mi appello alla dignità di tutti i contorni conosciuti, dalle patate fritte alle insalate miste, senza mais per favore. Cosa sarebbe infatti una bistecca senza di loro? E non pensiamo ai vegetariani per i quali i cosiddetti contorni assurgono a ruolo di veri e propri primi piatti?
Il tempo sta scadendo, qualcuno dei miei compagni di classe ha già consegnato il proprio tema. Io mordicchio la penna per trovare una conclusione degna. Eccola, trovata. È un titolo. Il titolo per il mio prossimo romanzo: Almeno il Campiello.
Mi manca solo la storia, e poi è fatta.
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"Questo è l’ultimo giro di vite perché siamo alla frutta...", dice lo scrittore Mario Fortunato, curatore delle Ratti Lectures alla Fondazione Ratti di Como, interpellato da La Provincia.
È un ghibli impetuoso quello che investe i premi letterari.
Lo Strega è il premio che gli italiani percepiscono come il più importante. Ma anche questo premio è sempre stato oggetto di giochi, di traffici, di manovre. C’è una giuria estesa di cui faccio parte composta da 400 votanti, tutte persone del mondo letterario e culturale italiano. Gruppi editoriali come Mondadori che contiene anche la Einaudi e altri marchi minori, e poi Rcs che è Rizzoli, Bompiani ecc. (il gruppo Mauri - Spagnol ha dato forfait allo Strega per principio) controllano pacchetti di questi votanti e sono una forza che mette fuori gioco gli editori più piccoli. In questo modo la qualità del libro passa in secondo piano. Non è una novità, ma adesso tutto è diventato più brutale di prima.
Quest’anno allo Strega si dà per certa la vittoria di Daniele Del Giudice il cui romanzo «Orizzonte Mobile» (Einaudi) è appena arrivato in libreria...
Del Giudice è uno scrittore che stimo e mi dispiace se tutto questo diventa un danno per lui. Il premio Strega adesso ha superato il limite e siamo arrivati al paradosso: il libro di Del Giudice non era ancora uscito in libreria e già si sapeva che avrebbe vinto lo Strega.
L’anno scorso alla scelta della cinquina del Campiello, un Andrea Vitali dato per sicuro è stato poi escluso senza un perché? In quali giochetti era incappato?
I giurati rispondono alle regole più diverse - dice Fortunato il cui nuovo libro Certi pomeriggi non passano mai (Nottetempo) uscirà a maggio -, e a regole non scritte che non mi piacciono. L’Italia è un paese molto incline all’imbroglio. Il discorso sui premi in generale è che in Italia sono tanti, troppi. Quelli importanti sono pochi (Strega, Campiello, Viareggio, Mondello), e gli altri sono prestigiosi ma di scarso impatto. Il Grinzane Cavour, molto quotato, sappiamo com’è andato ed è meglio che finisca in silenzio .
Allo Strega, dopo la scomparsa della Bellonci e della Romualdi le cose sembrano peggiorate.
Queste due signore finché sono vissute hanno svolto un ruolo di mediazione. Erano consapevoli del fatto che la Mondadori avesse una posizione dominante, ma ogni tanto la stoppavano, imponendo anche che il gioco si allargasse. Il premio Strega non era un premio trasparente, ma c’erano margini di trasparenza. Adesso il re è diventato nudo: l’attuale dirigenza del premio si limita correttamente a non intervenire nel gioco. La patronessa Romualdi, metteva i piedi nel piatto e imponeva il suo gioco. Chi crederà più ai premi?
Francesco Mannoni
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