Cultura e Spettacoli
Giovedì 14 Maggio 2009
Quando la ricca Sicilia
conquistò l'Alto Lario
In un libro di Rita Pellegrini la storia della migrazione dalle Tre Pievi verso Palermo ricostruita attraverso monili preziosi, fatti di corallo e oro. L'ondata verso il Sud avvenne soprattutto nel Seicento e portò nel Comasco nuove tradizioni e un più raffinato gusto per l'arte
Il libro che è stato presentato recentemente a Milano, "Gioielli storici dell’Alto Lario. Cultura del prezioso nel periodo dell’emigrazione a Palermo", di Rita Pellegrini, studiosa di storia locale ed esperta di arte orafa, è il frutto di una paziente ricerca condotta "sul campo", attraverso il reperimento e l’esame diretto dei monili, e frugando minuziosamente tra le carte d’archivio, con l’esplicito e del resto riuscito intento di suffragare alcune testimonianze bibliografiche e una tradizione orale secondo le quali i gioielli indossati dalle donne dei monti dell’Alto Lario provenissero da Palermo, portati sul territorio dagli emigrati.
Un intenso fenomeno migratorio "prettamente maschile", interessò, infatti, l’Alto Lario Occidentale, in particolare la fascia montana delle «Tre Pievi» (Gravedona, Dongo e Sorico), e se tra il XVI e XVII secolo il flusso migratorio intrapeninsulare prese più direzioni, propriamente il Seicento vide "scoppiare" il fenomeno dell’emigrazione nella prospera Palermo, protrattasi almeno fino ai primi decenni dell’Ottocento; una emigrazione che coinvolse migliaia di persone (tra cui anche maestranze qualificate nella lavorazione della pietra e del legno e commercianti) in fuga dalla miseria vissuta quotidianamente sui monti, ma che non fu comunque solo «affare per poveri», ma anche «mezzo generale per migliorare il proprio status economico familiare». Sul piano culturale l’incontro con la civiltà siciliana «risultò di grande arricchimento per gli emigranti, specialmente - afferma l’autrice - in rapporto all’acquisizione di un certo gusto del bello» che ebbe modo di esprimersi, per l’appunto, con l’acquisto di monili locali prodotti dalle maestranze orafe e argentiere, che operavano a Palermo nella stessa zona abitata dagli emigranti altolariani, ma anche di oggetti liturgici d’argento, questi ultimi destinati alle chiese dei paesi natii.
In tutto sono duecentoquaranta i gioielli catalogati (molti hanno il punzone indicativo di una produzione siciliana), un numero in ogni caso piccolo rispetto ad un patrimonio che è «caratterizzante della zona» e che è andato in parte perso: collane in corallo rosso con i "partitori argento", orecchini a cerchio in oro con monogramma mariano, cestino o aquila bicipite (marchio dell’Opera del Duomo di Palermo), anelli, specie quelli con croce di Malta, monili prettamente devozionali, come le corone da rosario in corallo, e altro ancora. Quanto è emerso dai documenti storici d’archivio, soprattutto gli inventari allegati agli atti notarili, le "schelfe", cioè gli elenchi della biancheria, delle vesti e dei gioielli che costituivano i corredi delle spose, ha permesso all’autrice di ampliare il discorso dal gioiello al bene prezioso in oro e argento, in particolare la posateria in argento, e ad altri beni materiali (lenzuola, fazzoletti in tela o seta, calze) portati dalla Sicilia in Alto Lario, estendendo l’indagine sulla "indumentaria" dei monti altolariani.
Frutto di una contaminazione con usi e costumi siciliani, fu il grande fiorire in Alto Lario del culto di santa Rosalia, protettrice della peste, divenuta patrona di Palermo nel 1666 dopo il ritrovamento delle sue reliquie e l’intervento salvifico in occasione della epidemia di peste del 1624. A testimoniare questa forte devozione, oltre le numerose reliquie della santa inviate dagli emigrati ai paesi d’origine, è il ricco patrimonio artistico fatto di opere di maestri locali e oggetti di provenienza palermitana, conservati nelle chiese delle «Tre Pievi». Il culto di santa Rosalia lasciò tracce anche nei nomi femminili e persino nei gioielli e nell’abbigliamento. Nel libro un capitolo è dedicato specificatamente al costume locale. L’abito tradizionale indossato dalle donne dell’Alto Lario almeno fino all’inizio dell’Ottocento, noto come il costume della "Moncecca" (nome affibbiato alle montanare delle Tre Pievi, «forse in riferimento al monte Francesca che si trova sul territorio»), venne mutuato proprio dal culto di santa Rosalia. Nella forma originaria era, infatti, simile al saio eremitico della santa. Il costume si era progressivamente arricchito anche con i monili importati dalla Sicilia. Davvero interessante questo accurato studio di Rita Pellegrini che getta, in generale, nuova luce sul fenomeno dell’emigrazione così peculiare di quelle Pievi.
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