Cultura e Spettacoli
Sabato 23 Maggio 2009
Tra i misteri di Mattei
c'è una pista comasca
Il presidente dell'Eni, nel '44, fu incarcerato a Como, nella palestra Mariani. Non a Milano, come è stato raccontato nella fiction di Raiuno. Il giornalista Gianfranco Casnati rivela la straordinaria testimonianza del compagno di cella di Mattei, Ferruccio Celotti, ex sindaco di Pognana. L'episodio è narrato nelle memorie autografe, di cui Casnati curerà la pubblicazione.
Sulla fuga di Enrico Mattei dal carcere sono state raccontate diverse “verità” il più delle volte molto romanzate. Nella recente fiction di grande successo, trasmessa da Raiuno, Mattei risulta essere recluso a Milano. Non fu affatto così: il futuro presidente dell’Eni si trovava in cella a Como. E di sicuro non fu una fuga rocambolesca, come si è visto in tv, ma un’evasione pilotata, grazie ad un agente di custodia a cui la Dc di Milano, tramite monsignor Carlo Castelli, aveva messo a disposizione una somma di denaro, che però non riscosse essendo stato subito scoperto.
La guardia aprì la porta della cella ricavata nella Palestra Mariani, in via Sauro, adibita a carcere per sopperire alle contingenti deficienze di San Donnino, “strapiene” di prigionieri politici. Mattei fece quindi poco più di 700 metri a piedi, alle 4 di una mattina di dicembre, arrivando alla stazione di Como Nord Lago e prendere comodamente il treno per Milano. La vicenda è raccontata con dovizia di particolari da un testimone oculare nelle sue memorie: l’allora compagno di cella, con il nome di battaglia “Alfonso”, alias Ferruccio Celotti, sindaco benemerito di Pognana Lario dal 1960 al 1964 e dal 1970 al 1995, morto in un tragico incidente il 9 novembre 2002, per uno strano gioco del destino proprio fuori dal palazzo comunale, che aveva fatto costruire. Enrico Mattei fu arrestato e portato a Como il 28 ottobre 1944 assieme ad altri nove amici della Dc di Milano operanti nell’ambito del Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia. Il suo nome di battaglia in codice era “Monti” e figurava in cima alla lista dei ricercati da Domenico Saletta, il commissario della squadra politica distaccata presso la Questura di Como: un nome tristemente noto fra gli antifascisti del Comasco, per gli innumerevoli arresti operati e per le fucilazioni eseguite. I dieci nuovi arrivati furono imprigionati nello stabile di via Indipendenza (l’attuale Biblioteca) rimanendo a disposizione di Saletta. Lì Mattei conobbe Ferruccio Celotti, che si trovava agli arresti già da due giorni. Il 6 novembre Celotti fu trasferito in una cella della palestra Mariani, dove dopo qualche giorno arrivò anche Mattei, il quale si sistemò in un letto a castello, che chiuse quasi completamente con delle assi. «Ebbi modo di poterlo conoscere, apprezzare», ha raccontato a chi scrive Celotti, che ha pure consegnato questi ricordi a memorie non ancora edite. «Venni a sapere che era il famoso "Monti", tanto ricercato da Saletta. Nei primi giorni del mese di dicembre, mi confidò che era sua intenzione scappare dal carcere e che stava predisponendo tutte le cose per poter evadere e mi chiese se volevo andare con lui. Indubbiamente la notizia mi fece molto piacere, tanto è vero che qualche giorno dopo, avemmo entrambi un colloquio: lui con sua moglie ed io con mia madre, al fine di predisporre quanto possibile per il dopo fuga». L’ 8 dicembre 1944, alle ore 4 del mattino, avvenne la fuga di Mattei dal carcere-palestra Mariani. «Non è stata una fuga rocambolesca - ha aggiunto “Alfonso” - come detto dall’onorevole Mario Ferrari Aggradi durante la commemorazione di Enrico Mattei, avvenuta a Como, al Collegio Gallio l’8 dicembre 1962. E non è nemmeno vero che Mattei fosse uscito dal carcere vestito da prete, come scritto da qualcun altro». Le cose, invece, andarono così. Alle ore 4 di quel mattino, «vi era il cambio degli agenti di custodia. Uno di essi arrivò qualche momento prima, fece andar via tutti gli agenti che smontavano e aprì la porta del carcere a Mattei. Il quale Mattei, seguendo come gli aveva indicato Celotti, la linea ferroviaria, arrivò alla stazione Nord Lago, si nascose all’interno di un vagone fermo in stazione e, alle 6, prese il primo treno per Milano. All’ultimo momento Celotti non se la sentì di partecipare alla fuga, in quanto i suoi genitori gestivano un negozio di alimentari a Pognana. La prima cosa che avrebbe fatto la Polizia, sarebbe stata quella di arrestarli. «Assistetti così nella penombra - racconta - all’uscita di Mattei ed al successivo controllo da parte dell’agente, circa la mia permanenza in cella». Alla fuga collaborò monsignor Carlo Castelli (allora parroco di Sant’Orsola) e suor Cecilia Vaiani dell’Ordine delle Figlie della Carità, distintasi in quel travagliato periodo per aver aiutato ebrei e perseguitati politici di ogni fede. Monsignor Castelli e suor Cecilia si erano impegnati a far recapitare al predetto agente di custodia, quale premio, una certa somma di denaro, messa a disposizione da Mattei e dall’Associazione Partigiani Alta Italia. Come tutte le mattine, anche quel giorno fecero l’appello dei detenuti e, ovviamente, Enrico Mattei mancava. Scattò, quindi, l’interrogatorio da parte di Saletta, visibilmente preoccupato, perché capiva l’importanza della figura di quell’uomo. Saletta insistette al punto di riuscire ad individuare l’agente che aveva favorito la fuga di Mattei.
L’uomo venne imprigionato, ma riuscì in seguito ad evitare danni peggiori: infatti, grazie all’intervento del cardinale Schuster di Milano, sollecitato dallo stesso Mattei, venne trasferito alle carceri milanesi. La somma depositata presso il Bar Monti di piazza Cavour, da parte di monsignor Castelli, venne poi ritirata da Saletta, che aveva scoperto tutto. Dopo la guerra, Celotti andò a trovare Mattei a casa sua in via XX Settembre a Milano e, dopo essere stato nominato Commissario Straordinario per la liquidazione dell’Agip, Mattei venne pure con sua moglie a trovarlo a Pognana.
© RIPRODUZIONE RISERVATA