Cultura e Spettacoli
Sabato 20 Giugno 2009
Giacomo, l'amico comasco
del figlio segreto del duce
Un ex telegrafista di 94 anni è l'ultimo testimone della triste vicenda del figlio naturale di Mussolini e di Ida Dalser, cha ha ispirato il film "Vincere" di Bellocchio. Intervista esclusiva a "La Provincia"
Un comasco, che per sua scelta è rimasto finora nell’ombra, ha avuto un ruolo molto importante nella tragica vicenda che ha accomunato Benito Mussolini, Ida Dalser e il figlio, riconosciuto dal duce, Benito Albino (1915-1942). Giacomo Minella, 94 anni, originario dei dintorni di Feltre (Belluno), ma da tanti anni residente a Como, ha una memoria eccezionale, gode di buona salute e, completamente autosufficiente, oltre a guidare la macchina coltiva amicizie in tutto il mondo. Da pochi mesi è tornato da un tour negli Stati Uniti dove ha incontrato vecchie conoscenze. È l’ultimo testimone vivente di una tra le più sofferte vicende del ‘900, quella che portò alla distruzione della famiglia segreta del duce, con il figlio Benito Albino e Ida Dalser sposata in chiesa dall’allora giovane Mussolini, usata per sovvenzionare le brame di affermazione del futuro dittatore attraverso il giornale "Popolo d’Italia". Tutti e due vennero successivamente annientati dal regime, fatti passare per pazzi e internati in manicomio. Lei, ingannata e abbandonata, dovette subire le peggiori umiliazioni e morì al San Clemente di Venezia il 3 dicembre 1937, lui cessò di vivere nel 1942 nell’ospedale psichiatrico di Mombello a Limbiate. Documenti e cartelle cliniche vennero fatti sparire. +A risvegliare le memorie su un giallo tutto italiano hanno contribuito il documentario "Il segreto di Mussolini" realizzato nel 2005 da Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli e il recentissimo film "Vincere" di Marco Bellocchio presentato a Cannes. «Sono stato per tanto tempo accanto a Benito Albino e ho cercato in tutti i modi di aiutarlo, ricambiato dalla sua amicizia – ricorda Giacomo Minella – e la mia partecipazione agli eventi si collega al fatto che mio zio Giulio Bernardi, una parentela acquisita a seguito delle seconde nozze di mio padre con una delle sorelle del gerarca, era stato incaricato dal fratello del duce, Arnaldo Mussolini, a assumere le funzioni di tutore del ragazzo dopo il ricovero coatto della madre in manicomio. Ero stato arruolato in marina, Benito Albino, un po’ più giovane, si era appassionato ai racconti delle mie esperienze di radiotelegrafista così mi aveva seguito alla scuola navale di La Spezia».
«Mio zio Bernardi, convinto fascista, mi aveva sollecitato a aiutare il ragazzo con il quale già avevo rapporti di amicizia - continua Minella - e posso dire con assoluta certezza che Benito Albino ha passato in Marina gli anni migliori. Pochi erano a conoscenza della sua identità, personalmente gli davo una mano nei servizi più impegnativi e nel corso di una lunga permanenza in Cina abbiamo vissuto tempi abbastanza tranquilli seppur con l’angoscia di Benito Albino per la sorte della mamma e il pesante risentimento nei confronti del padre. Quando a Shanghai ci siamo separati, a seguito del suo richiamo in Italia, avevamo le lacrime agli occhi». I suoi guai si accentuarono al momento dello sbarco a Brindisi quando Benito Albino, al quale non era mai stato concesso di rivedere la madre, nel 1935 venne dato per pazzo e rinchiuso nel manicomio milanese di Mombello dove morì a soli 26 anni. Permangono dubbi sulle pratiche mediche attuate, ufficialmente con lo scopo di curare le turbe psichiche. «Mio zio amorevolmente andava spesso a trovarlo, io non l’ho più visto, ma ricordo bene che il suo modo di parlare e di fare somigliava perfettamente al padre naturale, Benito. «C’è un particolare che ancora mi angoscia - ricorda Minella - e è riferito alla fine del ragazzo. Delle sue spoglie non ci sono più tracce. Al cimitero di Limbiate ho trovato solo un frammento di lapide con scritto Benito e mi hanno detto che le ossa sono finite in una fossa comune».
Com’era Benito Albino?
«Posso dire che era un ragazzo normale, nonostante le diagnosi degli psichiatri. Assomigliava in tutto e per tutto al padre e ricordo bene quanto detestasse il genitore».
Cosa pensa della vera o presunta pazzia?
«Per me non era pazzo. Semmai, sono stati gli emissari del regime a farlo diventare pazzo. Nessuno avrebbe resistito alle continue vessazioni, basti pensare che mentre eravamo in Cina avevano cercato di fargli credere che la mamma era morta. L’ho aiutato molto in quei momenti».
Cosa ricorda di Arnaldo Mussolini e di Giulio Bernardi?
«Arnaldo ha sempre cercato di proteggere il ragazzo tant’è vero che lo ha affidato alla tutela di mio zio Giulio il quale gli ha sempre voluto un gran bene, affrontando molti sacrifici dopo il ricovero in manicomio».
Albino aveva relazioni con qualche ragazza?
«Ricordo che quando eravamo in Cina mandava delle lettere a una ragazza di Trento, ma poi ho saputo che il regime fascista era intervenuto sui genitori perché dissuadessero la ragazza dall’intrattenere la corrispondenza».
Com’era Ida Dalser?
«Non ebbi rapporti diretti, ma fu una donna combattiva e passionale che amò disperatamente il figlio, poi sottratto dal regime, ma volle anche bene all’uomo, poi diventato duce, che fu causa di tutte le sue tragedie».
Cosa pensa delle versioni cinematografiche sulla tormentata vicenda?
«Il documentario di Laurenti e Norelli in co-produzione con "La grande storia" di Raitre e la partecipazione della Provincia autonoma di Trento è stato fatto molto bene grazie a una puntuale ricerca, mentre da quello che ho potuto vedere in televisione il film di Bellocchio è piuttosto romanzato. Non penso di andarlo a vedere».
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