Cultura e Spettacoli
Domenica 26 Luglio 2009
"L'uxoricida Fenaroli
cattivo perchè brianzolo"
Epiteti e polemiche. Un giudice commentò molto duramente l'origine dell'imputato. I giornali ripresero quelle parole, l'opinione pubblica insorse. Era l'inizio del 1961
Ma i comaschi sono avvezzi a sorvolare, a non dar troppo peso alle parole.
A parte qualche dotta polemica, è raro trovare nel passato esempi di una compatta ribellione dei comaschi alle affermazioni eufemisticamente "poco carine" rivolte loro.
Raro ma non impossibile, se si scorrono con attenzione le testate locali. Legata ad un noto processo dei primi anni Sessanta, fu la massiccia ma pacifica protesta che unì tutti i comaschi in difesa della loro dignità offesa e calpestata dalle parole inopportune di un giudice.
Ma entriamo nel merito della vicenda. All’inizio del 1961 l’interesse dell’opinione pubblica italiana venne monopolizzato dal cosiddetto "Processo del secolo", quello intentato contro Giovanni Fenaroli e Raoul Ghiani considerati gli autori dell’omicidio della moglie di Fenaroli, Maria Martirano, uccisa a Roma nella notte tra il 10 e l’11 settembre 1958 dal "sicario" Ghiani, seguendo il piano architettato da Fenaroli - sull’orlo di un dissesto finanziario - per riscuotere i 150 milioni di una polizza di assicurazione sulla vita stipulata a nome della moglie (figurava anche un terzo imputato, Carlo Inzolia, con un ruolo di secondo piano).
I giornali, anche dopo l’arresto dei presunti colpevoli, che continuarono sempre a dichiararsi innocenti, avevano seguito per mesi le complicate indagini, concentrando l’attenzione sulla figura alquanto singolare di Giovanni Fenaroli, imprenditore del ramo edile, con manie di grandezza e sempre impegolato in guai finanziari.
Fenaroli - e veniamo al dunque - era originario di Airuno, un paesino brianteo del lecchese, che faceva ancora parte della provincia di Como.
Il 1° febbraio 1961, a pochi giorni dall’inizio del processo, il Corriere della sera pubblicò un pezzo dell’inviato speciale Mario Cervi, incentrato sulla sentenza di rinvio a giudizio stilata dal giudice istruttore Roberto Modigliani. Il giornalista aprì l’articolo con alcune righe della sentenza istruttoria che riassumevano il giudizio del magistrato su Giovanni Fenaroli: «Nato in quel di Como, tra una popolazione attiva e laboriosa, in una zona tra le più ricche e più industrializzate della penisola, Giovanni Fenaroli, che nei sogni giovanili certamente aspirava a divenire un potente capitano d’industria, acquisì, o forse ebbe innato, il lato deteriore della mentalità dei suoi conterranei, quello di considerare la ricchezza come la massima aspirazione dell’uomo, di vedere nel denaro l’unico strumento di potenza e di considerazione, e di valutare col metro del denaro uomini e cose».
A gettare benzina sul fuoco ci pensò Indro Montanelli. Infatti, nell’elzeviro apparso qualche giorno dopo, sempre sul Corriere della sera, riprendeva lo stesso passo della sentenza di Modigliani, contestando «la semplicistica schematizzazione» del ritratto psicologico di Fenaroli, senza stigmatizzare l’assoluta arbitrarietà dell’accostamento tra il presunto mandante dell’omicidio e la popolazione comasca (preparava già il terreno alle sue future frecciatine!).
Le parole del giudice, riprese più volte, risuonarono come un’offesa gratuita e indegna, un colpo al cuore per i comaschi.
Fu, come abbiamo anticipato, proprio l’opinione pubblica, i semplici cittadini a mobilitarsi per primi, inviando ai giornali locali lettere di protesta per il giudizio assurdo di quel magistrato, sottolineando soprattutto la latitanza delle autorità locali sulla questione.
Non vi fu, infatti, alcuna presa di posizione da parte delle "personalità" della provincia ad eccezione del presidente degli Amici della Brianza, Alberto Airoldi, che aveva inviato al Giornale di Lecco e alla Provincia una «garbata ma ferma» protesta contro «lo strano giudizio» contenuto nella sentenza istruttoria redatta da Modigliani «che aveva forzato la verità confondendo con l’imputato le sane e laboriose popolazioni della Brianza le quali hanno raggiunto col sudore un migliorato benessere economico non disgiunto da una media morale riconosciuta dalla considerazione di tutti i buoni italiani».
Il commento del giornale lecchese, solidale con l’Airoldi, insisteva nel «non confondere Fenaroli con i bravi brianzoli».
Anche La Provincia si associò alla protesta dei comaschi: «(…) È inaudito - leggiamo nel numero del 7 febbraio - che un magistrato, al quale, per la sua stessa alta e delicata funzione, dobbiamo attribuire ponderatezza e responsabilità nei suoi giudizi, estenda e dilati la sua valutazione al costume e ai caratteri della nostra gente. Poiché, senza peccare di eccessiva malizia, dobbiamo pensare che il riferimento alla "deteriore mentalità" sia, principalmente, un espediente retorico, comunque elusivo (…). In ogni modo, vogliamo ricordare che si deve alla operosità, alla infaticabile spinta costruttiva dei comaschi, al loro senso positivo dello sforzo umano, se la nostra industria, con la collaborazione attiva ed esperta delle maestranze, ha occupato e occupa un posto primario nell’economia mondiale».
Altre testate locali, come L’Ordine e il Corriere del Lario, si occuparono della faccenda ma la polemica presto si esaurì con l’apertura ufficiale del processo, che appassionò e divise gli italiani tra innocentisti e colpevolisti, trattandosi di un classico processo indiziario, che ha lasciato molti punti interrogativi, e che si concluse, come è noto, con la condanna all’ergastolo dei due maggiori imputati.
Elena D'Ambrosio
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