Cultura e Spettacoli
Sabato 29 Agosto 2009
Marinetti e Prampolini
Colpo di stato per i Caduti
Nel 1930 i due approfittando dello stallo della gara per il cippo
recuperano un disegno di Sant'Elia e Terragni lo realizza
Il 3 ottobre, in occasione della chiusura della mostra che si sarebbe poi dovuta spostare a Milano presso la galleria Pesaro e quindi alla prima Quadriennale di Roma, Marinetti torna a Como con Enrico Prampolini, Buzzi, Escodamè e gli altri fedeli componenti dello "staff" futurista cogliendo al volo uno spunto imprevisto. Eccolo, lo spunto: il podestà comasco, ingegner Luigi Negretti, gli ha confidato che da anni la città avrebbe voluto erigere un monumento in memoria dei Caduti della Grande Guerra, senza riuscire nell’intento.
Un concorso per adattare a tale scopo il palazzo del Broletto, bandito nel 1926 in due gradi (primo classificato il progetto Asnago-Vender, secondo quello presentato da Terragni e Lingeri), alla fine non aveva convinto il comitato organizzatore, né erano parsi adeguati nel 1930 altri progetti eseguiti, su invito del Comune, da un gruppo di giovani architetti e ingegneri capeggiato da Terragni, dall’arch. Mazzocchi (realizzatore della sede del Carducci) e dall’industriale/esteta Guido Ravasi. Niente di fatto ed i familiari dei Caduti erano inviperiti.
Marinetti e Prampolini prendono la palla al balzo: quale migliore occasione per scegliere un disegno di Sant’Elia e dare ad un sogno rimasto sulla carta una veste reale? Nessuno - proclama l’autore di Mafarka - meglio dell’architetto comasco immolatisi sulle alture carsiche, può dare degna forma ad un omaggio perenne al valore, al sacrificio, al patriottismo. L’oratoria di Marinetti è travolgente, l’ingegner Negretti si lascia convincere, tanto più che la soluzione proposta dai futuristi lo mette al riparo dalle critiche dei malcontenti.
Il 5 ottobre, Marinetti, affiancato da Prampolini, Escodamè, Buzzi e dal fratello di Sant’Elia, Guido, si reca nel luogo dove avrebbe dovuto sorgere il monumento, davanti al lago, e sfoglia i disegni santeliani, uno alla volta. L’occhio gli cade su uno schizzo colorato a pastello che rappresenta un edificio a due torri parallele certamente monumentale, ma dalla funzione non facilmente identificabile. Qualcuno, scambiando per fili dell’energia elettrica i tratti tracciati nervosamente dal tiralinee oltre la sagoma del fabbricato, lo definirà in seguito "edicola elettrica". Non è così, anche se sulla sommità appare un involucro tinto in azzurro che sembra proprio una lanterna, e infatti Escodamè, nel catalogare per la mostra il materiale santeliano, l’aveva denominato "torre faro". Il disegno, accanto alla data "marzo 1914" reca anche un’indicazione di luogo: non c’è dubbio, il luogo è Como. Si deve dar atto a Marinetti di avere una non comune capacità decisionale: fra le tante idee tracciate sui fogli di questa architettura cartacea questa è la più adatta alla circostanza.
Dunque, si proceda. Il podestà delega Prampolini, su proposta di Marinetti, a trasformare lo schizzo santeliano in un progetto esecutivo. Nel contempo si assicura che i lavori di costruzione vengano diretti da un tecnico esperto come l’ingegner Attilio Terragni, fratello di Giuseppe. A quest’ultimo la decisione presa così, sui due piedi, dopo tanti anni di attesa e di rinunce, non piace affatto. È la seconda volta che gli sfugge di mano l’incarico di realizzare il monumento. Perciò protesta, sia pure in sordina, con le autorità regionali, con i dirigenti del Pnf, con gli amici: ma si vede costretto ad accettare una situazione ormai compromessa e appone la sua firma, come fiduciario del sindacato architetti, alla lettera che richiede ufficialmente l’approvazione dei competenti organismi nazionali.
Prampolini esegue il suo compito con il massimo rispetto per il disegno, in talune parti difficilmente leggibile, del maestro futurista. Per esempio, interpreta come gruppi statuari le scure masse che nello schizzo santeliano sono appese ai lati del monumento. Delinea poi in prospetto due varianti alle strutture di giunzione delle torri binate, replicando la soluzione santeliana di una serie verticale di fori, in un altro la forma interconnessa di un pseudoedificio dalle finestrature arcuate palesemente ispirato dalle torri medioevali. Alla fine, consegna le tavole all’amministrazione comunale, riceve il compenso per la sua prestazione, e se ne va. L’ingegner Attilio Terragni inizia la costruzione, apprestando una poderosa piastra di sostegno all’edificio, riparata dalle infiltrazioni lacustri: ma, terminata l’edificazione dello zoccolo in cemento armato, fa presente al podestà che per proseguire ha bisogno di altri disegni, che rappresentino con i dovuti computi metrici l’interno e l’esterno dell’edificio.
A questo punto, è chiaro, ci si poteva rivolgere ad un altro professionista, capace di completare una progettazione che Prampolini, valente pittore, scultore, scenografo ma non architetto, non era in grado di fornire. Ma il Comune preferisce prendere tempo e risponde alle sollecitazioni di Marinetti da Roma con vaghe assicurazioni che la costruzione è in atto: e quando chiede finalmente a Prampolini i disegni suppletivi, l’artista è all’estero. Perciò l’operazione dilatoria ottiene il suo vero scopo, fare in modo che il progetto porti solo la firma di comaschi. Sarà Giuseppe Terragni a portare a termine l’erezione del monumento, che recherà indelebilmente l’impronta della scuola razionalista, snellendo il profilo del progetto santeliano e liberandolo da ogni sovrapposto elemento decorativo.
Prampolini, comprensibilmente irritato per lo scippo nei suoi confronti, non si farà più vedere a Como. Dal canto suo, Marinetti non interverrà all’inaugurazione del monumento, il 4 novembre 1933, però manterrà un ottimo rapporto di amicizia con Terragni, dandogli persino una patente di futurismo. A lui bastava aver preteso che sul monumento venisse inciso il nome di Sant’Elia e una sua frase che avrebbe pronunciato in trincea il giorno prima di morire durante uno degli assalti per la conquista di Trieste, secondo il racconto di un testimone. Una frase in cui, violentando lo spoglio linguaggio del giovane architetto, aveva aggiunto termini a lui, socialista laico, non congeniali, quali "paradiso degli eroi". D’altronde, per edifici del genere celebrativo, come un Monumento dei Caduti, un pizzico di esaltazione retorica non guasta.
Alberto Longatti
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