Cultura e Spettacoli
Mercoledì 02 Settembre 2009
Caporetto, lo sfascio
di una generazione
Lo storico Roberto Festorazzi anticipa alcuni passaggi del diario di un prigioniero italiano tra il 1917-'18, ritrovato a Como, dai contenuti drammatici: finti casi di follia, automutilazioni, sprechi, disperazione nelle trincee
La storiografia più penetrante ha decretato che l’armistizio dell’8 settembre 1943 è la data-simbolo della morte della Patria, a causa delle modalità gravide di conseguenze nefaste con cui la resa venne affrontata. Ma, nella nostra coscienza civile, pesa ancora la macchia di un’altra sciagura che ha certamente ferito gravemente il senso dell’onore nazionale. Alludiamo alla disfatta di Caporetto, che schiantò il nostro esercito, seppellendolo nell’onta di una ritirata precipitosa e devastante. Alle 2 del 24 ottobre 1917, nel settore di Tolmino-Plezzo, lungo un fronte di circa cinquanta chilometri segnato dalla barriera naturale dell’Isonzo, l’offensiva degli austro-tedeschi, peraltro ampiamente attesa e preventivata, sfondò le nostre linee, ancora attestate su assetti fondamentalmente offensivi anziché difensivi. L’attacco mortale sferrato dal nemico, che ricorreva all’arma più micidiale e nuova, i gas, seminò il panico tra le nostre truppe, squagliatesi come neve al sole sotto l’impeto di una ritirata scoordinata e assurda. Un documento straordinario, conservato a Como, ci consegna una testimonianza inedita e di rara efficacia su questa pagina poco edificante della nostra vicenda nazionale. Si tratta del diario di un carabiniere a cavallo, dello Squadrone corazzieri, combattente al fronte: Temistocle Macinanti, un uomo di due metri di statura, con due baffi neri, che volle lasciare una memoria meditata degli accadimenti. Il sottufficiale dell’Arma, originario di Belmonte Sabino, in provincia di Rieti, fu fatto prigioniero dai tedeschi e scrisse, tra il novembre 1917 e il marzo 1918, a Mannheim, un resoconto dettagliato di quanto avvenne nelle trincee di fango e di sangue. Il manoscritto è stato conservato dalla figlia, Maria Antonietta Macinanti Giussani, che vive a Como, dove per molti anni è stata animatrice dell’emittente radiofonica Radionova, oggi purtroppo scomparsa dal panorama dell’informazione. Temistocle Macinanti, morto il 18 agosto 1936 a 56 anni, racconta in una quarantina di pagine la vergogna di una sconfitta annunciata, frutto avvelenato di fattori morali prima ancora che di errori militari. In una disamina lucida e spietata, il militare dell’Arma illustra l’insieme delle cause profonde che fiaccarono la tenuta del nostro esercito, minato dall’indisciplina, dalla diserzione, al punto che gli inni patriottici vennero completamente banditi dalle trincee per essere sostituiti dagli stornelli da lupanare. A distruggere il morale della truppa fu innanzitutto il contegno deplorevole degli ufficiali, dediti all’affarismo più sfrenato, al lusso e alla bella vita. Il cattivo esempio proveniente dall’alto agì come un acido e dissolse i freni inibitori. Le mense degli ufficiali erano degne di club inglesi e di Grand Hotel, e i comandi militari erano più interessati alle feste danzanti che alla conduzione della guerra. La piaga dilagante dei favoritismi e del lassismo non fu meno dannosa dell’arte dello spreco, che giungeva a vette inenarrabili. Forme di formaggio ruzzolavano dai pendii, tonnellate di riso andarono scialacquate, e parecchi equini morirono per il troppo zucchero ingurgitato! «Le astuzie più criminali venivano studiate», scrive Macinanti, per potersi imboscare nelle retrovie. Le malattie e l’idiotismo erano simulati con ogni sorta di stratagemma. Il corazziere riferisce di «automutilazioni ingegnose, ingestione di tabacco, di sapone, di ogni sozzura e talvolta dei veri veleni, onde conseguire la riforma».
(Estratto dall'articolo di Roberto Festorazzi, pubblicato sull'edizione del 3 settembre de "La Provincia")
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