Cultura e Spettacoli
Lunedì 07 Settembre 2009
Nella valigia di Nessuno
In esclusiva uno dei 15 racconti vincitori del concorso Sim-patia
Domenica 6 settembre, in piazza Cavour a Como, è stato presentato «Libera-Mente. Racconti brevi» (Esedra, 61 pag, disponibile anche in versione audiolibro, www.esedracoop.it), il libro con i 15 scritti vincitori del Concorso Sim-patia 2009, sul tema «Una valigia senza confini». Ecco uno dei racconti.
"La vita è un viaggio", dicevano spesso, dimenticandosi altrettanto spesso che prima del viaggio c’è un addio. Si dimenticavano degli addii come i tramonti sfumati, sul molo, quando lui fumava e sperava che lei non piangesse. Gliel’aveva spiegato, doveva partire. Aveva provato a dire, proprio mentre, come aveva previsto, singhiozzava piano guardando per terra, che la vita è una continua ricerca. E che la ricerca è un viaggio, e - ma questo lo teneva per sè - che un viaggio come si deve comporta un addio triste e a colori caldi.
Aveva posato a terra la valigia marrone e aveva visto che cos’erano: lei una Leigh normale, foulard e occhiali da sole scuri, lui un Gable intellettuale, trasandato e romantico fumatore. Dietro la macchina da presa, solo il silenzio si mischiava al respiro del mare, quel Fleming qualunque che, zitto, segue la fine delle riprese del capolavoro giornaliero del crepuscolo. Dava l’ultimo tiro e, buttando la sigaretta ormai finita, guardava l’acqua che l’affogava. Buttava fuori l’ultima boccata e guardava oltre, più avanti di dov’era lei. Parlava dall’alto dei suoi vent’anni, della sua conoscenza dei libri, della sua bellezza appena accennata, nascosta sotto ottantaquattro chili di buonsenso, del pacchetto e mezzo al giorno di tostate che fumava.
Aveva provato a dirle - anche lui ormai in lacrime - che un addio non esclude un arrivederci. Sarebbero arrivati giorni di pioggia o di sole, inseguendosi e correndo come due ragazzini che giocano, sporchi di fango.
«Quanto starai via», gli chiedeva.
«Non lo so», rispondeva.
Pensava che il tempo fosse solo un direttore d’orchestra che seguiva, tirando con la bacchetta fili invisibili, gli assolo del primo violino e del violoncello, la vita e la morte che intrecciando le loro melodie costruivano piano l’armonia della sua storia.
Era lì, impalato come una statua di legno scolpita male, con il collo troppo proteso verso di lei e le spalle indietro, ché ogni parte del suo corpo sembrava volesse chiederle scusa. Giustificarsi, quantomeno. Il suo corpo snello e alto si stagliava di profilo lungo la linea del molo, in controluce. Quel corpo era la valigia dei sentimenti che si sarebbe portato dietro, di quelli che lei gli aveva regalato e di quelli che la strada gli avrebbe fatto trovare e raccogliere. Del resto pensava che quel corpo fosse l’unica cosa che gli appartenesse veramente. Tutto era racchiuso nella sua mente come una collana di perle in uno scrigno. Per tutto il resto se la sarebbe cavata, come aveva sempre fatto.
«Come potranno conoscerti veramente...», continuava lei.
Lui, al momento, non gli aveva risposto. Non gli importava della gente. Aveva imparato a chiamarsi Ulisse, doveva farlo per poter viaggiare. Il suo nome era diventato Nessuno da quando era uscito di casa poco prima. Il treno sarebbe partito di li a un’ora, e nella rigida valigia marrone aveva un completo grigio, una camicia senza collo, della biancheria e una macchina da scrivere. I libri li aveva nella tracolla. Andava alla città, doveva e voleva fare lo scrittore. Aveva trovato una soffitta a poco prezzo in zona Parnaso. Voleva e doveva scrivere il libro di una vita. Voleva, forse, diventare il protagonista perfetto del romanzo perfetto. Ma quel suo ammasso di nervi e ossa, qui come là, era il suo unico, vero bagaglio, vestito della pelle di cui sua madre l’aveva involontariamente rivestito. Il suo corpo era la valigia di Nessuno, o forse la valigia del mondo intero. Lì avrebbe nascosto le lacrime insieme alle foto che aveva di lei, i ricordi più belli. Quel corpo sarebbe stato la valigia che non avrebbe mai cambiato. certo, si sarebbe consumata lentamente, sarebbe diventata vecchia e lisa, ma sarebbe stata quella, fino alla fine dei suoi giorni, fino alla fine del suo viaggio. Insieme a quel quei ricordi avrebbe potuto chiudere tutto, tranne la casa. Sapeva che la sua voce l’avrebbe dimenticata dopo un po’, ma almeno ci sarebbe stato qualcosa per cui tornare, alla fine.
Così partiva verso la città, pronto per bere vino nei più bei caffè, fare lunghe passeggiate sulle rive del suo fiume, perdersi nei vicoli fino a ritrovare la via della soffitta gialla e calda che lo aspettava ogni sera, con il suo odore di velluto e fogli di carta. Arrivava alla fine del primo capitolo, poi del secondo, poi del terzo, così fino all’ultimo. Vedeva il suo romanzo prendere vita ed essere pubblicato, vedeva la sua faccia sui giornali, e rideva.
Eppure sentiva la voglia di rivederla. Grandissima, dal primo giorno, la certezza di un suo ritorno che ci sarebbe stato. Così tornava, con qualche soldo in tasca e la sua valigia più vecchia di cinque anni, con i capelli scuri e la barba lunga. Bussava a casa sua e le vedeva aggrappato addosso un bambino biondo. Un bambino che non era suo. La sua valigia stava svuotandosi di ogni cosa davanti a quel cucciolo d’uomo, davanti a lei che spiegava dell’amore che aveva trovato, della felicità del volergli bene come a un amico del passato. Era solo un ricordo e, forse, un rimpianto. Lui, a quel punto del gioco, capiva davvero d’essere arrivato a essere nulla, a chiamarsi Nessuno. La valigia stava rompendosi, stava cadendo a pezzi, sotto gli strumenti appuntiti della vita travestita da conciatrice di pelli: le parole dell’amore di una vita e gli occhi azzurri di un bambino. Così camminava verso il molo, trascinandosi, pensando che l’amore è come l’inferno, che fa male, che è ingiusto. Che alla fine, quando tutto andava bene, poteva permettersi il lusso di scrivere e fumare, mentre in quel momento l’unica cosa che poteva fare era buttare a mare quella valigia ormai a brandelli. E io, non ho fatto in tempo a salutarlo, al suo ritorno, perché mentre passavo in bicicletta vedevo che si lanciava nello specchio d’acqua. Pedalavo tanto forte, per la voglia di vederlo, che le assi di legno del molo sembravano lì lì per cedere. Una volta arrivato, vedevo solo il mare che, tra un’onda e l’altra, ridendo ingoiava la valigia di Nessuno.
Alessandro Luraghi
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