Cultura e Spettacoli
Domenica 08 Maggio 2016
C’è la Jihad in Lombardia?
Paure che ci fanno perdere lucidità
La riflessione dello storico Franco Cardini - All’odio di alcuni stranieri per la terra che li ospita si risponde montando un caso e si fa guerra a immigrati e moschee
Ma così si ottiene solo l’effetto di creare nuovi estremisti
L’intervento integrale di Cardini a proposito di jiahad e dei fatti di Lecco pubblicato su
“La Provincia di Lecco” in edicola oggi, domenica 8 maggio 2016
A proposito di guerriglia musulmana e di terrorismo, noi europei abbiamo probabilmente parecchi nemici in casa. Che arrivino mischiati ai migranti è piuttosto improbabile; e difatti i servizi sono al riguardo scettici pur non abbassando la guardia. I musulmani nostri concittadini o residenti da tempo o addirittura nati qui fra noi, d’origine africana o asiatica ma in Europa da due o tre generazioni, o magari ex cristiani o ex agnostici convertiti all’Islam e animati dal sacro fuoco dei neofiti, quelli ci sono: magari non molti, ma potrebbero crescere e sono pericolosi.
Poi c’è un nemico più subdolo e più insidioso ancora, per quanto non solo non sappia di esserlo ma si ritenga invece, al contrario, un nostro protettore. La gente.
Proprio così: la gente. È quella che, a proposito dei sei arresti in Lombardia per supposti e sospetti casi di fiancheggiamento al terrorismo e alla guerriglia jihadista, ha sepolto il Ros e la Digos di messaggi d’ogni genere denunziando vicini, svelando complotti, facendo nomi e cognomi, passando addirittura la “registrazione” di “conversazioni in arabo” fra “terroristi” (una era tra un albanese e un bosniaco: musulmani probabilmente entrambi, ma è difficile che potessero parlare “fluently” in arabo al telefono...).
Attenzione alla “gente”
Non è infatti grazie alla “gente”, bensì a un fine e rigoroso lavoro d’informazione e d’infiltrazione, che all’alba di giovedì 28 aprile un’operazione congiunta di Ros e di Digos ha condotto all’arresto di due coniugi marocchini residenti a Lecco, Abderrahim Moutaharrik – campione di kickboxing – e sua moglie Salma Bencharki, ventiseienne. I due sono “sospetti” (quindi indiziati) di per ora non ben precisati rapporti con lo “Stato Islamico”. Non è – bisogna esser chiari al riguardo – un’accusa di terrorismo: non ancora, comunque. La giovane coppia ha due bambini, di 4 e di 2 anni: i nostri media non c’informano delle misure assunte a tutela dei due minori (salva la generica notizia secondo la quale i due piccoli sarebbero stati affidati “ai nonni”), dimostrando per la verità con ciò di nutrire scarsa stima della società civile italiana ch’essi ritengono disinteressata alla cosa.
Strano invece – e allarmante – che i quotidiani abbiano diffuso invece l’esatto indirizzo dell’abitazione di Lecco dei due indiziati. Con i tempi che corrono e le teste calde a giro, qui non si tratta nemmeno di tutelare la privacy. Insomma, una famiglia data in pasto all’impietosa attenzione del pubblico: in un paese dove, quando emerge un qualche possibile reato non magari di terrorismo, ma di altrimenti ben più nobili responsabilità – peculato, interesse privato in atto pubblico eccetera – del quale sia indiziato un parlamentare, ci si affretta a ricordare che nessuno è colpevole finché al sua colpevolezza sia comprovata in giudizi di terzo grado. Ma Abderrahim e Salma, terroristi anche se non ancora condannati per esserlo, non hanno evidentemente diritti civili.
Inquietante comunque, a quanto pare, il “reseau” d’intenzioni (o di millanterie…) emerso dalle intercettazioni alle quali i due sarebbero stati sottoposti, non sappiamo in seguito a quali segnalazioni né di chi. I due, in Italia da sedici anni, si sono ovviamente protestati innocenti e hanno aggiunto di non aver mai voluto far del male a nessuno, eppure sembra che dalle loro conversazioni emergesse un profondo odio per il paese che li ospita e si è addirittura parlato di un ventilato o vagheggiato (anche se non programmato: ed è ben diverso) attentato contro il Vaticano.
Accusa e difesa
Di che tipo, con quali mezzi? Qui il riserbo degli arrestati e dei loro legali è giustificato dal fatto che a quanto pare il gip di Milano incaricato dell’inchiesta, Manuela Cannavale, non ha posto specifiche domande al riguardo. È invece emerso che Salma aveva chiesto e ottenuto dalla filiale della Deutsche Bank (filiale di Introbio) un prestito di 7000 euri che secondo gli inquirenti sarebbero serviti a finanziare il viaggio della coppia verso l’area occupata dalle forze del califfo al-Baghdadi, propriamente alla volta della Siria (l’accusata ha a sua volta replicato che quel danaro serviva a pagar debiti e a fare acquisti vari; anche su ciò, l’inchiesta resta da perfezionare).
Ma nei colloqui intercettati si parla altresì della volontà di raggiungere la Siria: sogno, desiderio, proposito? Abderrahim ha dichiarato che il suo movente al riguardo sarebbe stato umanitario: si era commosso di fronte alla tragedia delle sofferenze dei bambini in Siria. Proposito lodevole ma in effetti poco credibile. Comunque il castello indiziario messo su dal gip non dev’essere troppo solido, se l’avvocato difensore della coppia ha immediatamente annunziato istanza di scarcerazione al Tribunale del Riesame.
Il punto centrale, tuttavia, starebbe nelle parole che la coppia avrebbe usato parlando con un loro conoscente, Abderrahman Chakia (semiomonimo del pugile di Lecco), ventitreenne anch’egli marocchino, esprimendo ammirazione per il fratello di questi, Usama, a sua volta partito per la Siria e caduto in battaglia. In altre parole, il pugile e la consorte considerano Usama uno “shahid”, un martire della fede. La loro posizione è compromessa appunto dall’amicizia con Abderraham Chakia, loro compatriota cresciuto peraltro a Brunello in provincia di Varese.
Usama Chakia, che aveva un lavoro come saldatore, è morto trentunenne lo scorso anno in Siria. Era stato espulso il 24 gennaio dello scorso anno dall’Italia con un provvedimento del ministero dell’Interno: era riparato in Svizzera ma, espulso anche di là, era riuscito ad arrivare in Siria nell’agosto ed era morto a Ramadi.
Ed eccoci a una fase importante del “montaggio” mediatico. Prima di partire, Usama era entrato in contatto con la scrittrice Silvia Layla Olivetti, la quale dall’incontro e dall’esperienza del suo ispiratore ha tratto un romanzo, “Isis. Islamic State. Diario di un jihadista italiano” (edizioni David and Matthaus), a guisa di postfazione del quale è pubblicato una specie di “testamento spirituale” di Usama. Attenzione, però: siamo davanti a un romanzo, non a un instant book. In che misura va accolto come una testimonianza?
Prima di partire, Usama aveva avuto forse il modo e il tempo d’indottrinare il fratello Abderrahman, di circa sette anni più giovane di lui. Continuò a restare in qualche modo in contatto con lui anche una volta uscito dall’Italia? In una conversazione intercettata il 6 febbraio scorso e relativa agli attentati di Parigi del novembre precedente, Abderraham aveva dichiarato che il fratello era partito per la Siria soprattutto in quanto commosso dalle sofferenze dei musulmani di quel paese – in una prospettiva ch’era evidentemente quella delle posizioni sostenute dall’Isis - e aveva affermato che, in particolare, i francesi sono pieni di odio nei confronti dei musulmani.
Insomma, Aderrahman Chakia - arrestato anch’egli all’alba del 28 aprile scorso a Venegono Superiore in casa di un amico, dove aveva passato la notte - voleva partire a sua volta verso “al-Dawla as-Salamyya”, il “regno della pace”, secondo lo slogan che figura infatti proprio sotto il titolo del romanzo della Olivetti. Le sue dichiarazioni, intercettate, sono state causa dell’emissione a suo carico di un’ordinanza cautelare. Il giovane, in particolare, avrebbe manifestato con le sue parole anche un oscuro desiderio – anche qui: dietro di esso v’era un progetto? – di vendicarsi di chi aveva causato l’espulsione di Usama dall’Italia e quindi la sua partenza: la questura di Varese, cioè, responsabile appunto di quell’atto.
Insomma: dalle intercettazioni risulta che Abderrahman era stato in qualche modo plagiato dal fratello maggiore e che i due amici semiomonimi (Abdrerrahim da Lecco e Abderrahman da Brunello di Varese: ar-Rahman e ar-Rahim, “il Clemente” e “il Misericordioso”, sono i due Nomi di Dio richiamati nella shahada, la “Professione di fede” musulmana) si esaltavano nella memoria dello shahid Usama, intendevano in qualche modo vendicare la sua memoria, frequentavano siti informatici nei quali si esalta il jihad califfale eccetera.
Mogli e figli
Intanto, a Baveno è stata arrestata anche Wafa Koraichi, un’altra marocchina, ventiquattrenne sorella di Muhammad a sua volta partito per combattere in Siria, insieme con la moglie e i tre figli. Su Wafa pende addirittura l’accusa di essere una “reclutatrice di terroristi”.
Il materiale delle intercettazioni presenta insomma il consueto bagaglio di chiacchiere facinorose e pericolose, ma anche generiche e qua e là vaneggianti: attentati al Vaticano per punire “l’Italia crociata”, propositi di battere Israele, eccetera. Prove chiare e concrete del fatto che ci si trovi dinanzi a una cellula terroristica, francamente, non sembrano essercene. Ed è ovviamente questa la linea di difesa degli indiziati e anche del loro legale: si tratterebbe di chiacchiere di recriminazioni, di vanterie.
Resta un’ipotesi di reato che grava sui quattro arrestati e sui due ricercati, i coniugi Koraichi: l’associazione a fini terroristici comporta una condanna fino a quindici anni di carcere.
Ma intanto è successo il finimondo. Il presidente della regione Lombardia, Roberto Maroni, elogiando l’operazione delle forze di sicurezza, ha chiesto al governo di chiudere le frontiere ai clandestini (ma nessuno dei quattro arrestati e dei due ricercati è tale: l’incongruenza, naturalmente, non è stata rilevata).
Il senatore Stefano Candiani e il consigliere Emanuele Monti, entrambi leghisti, si sono precipitati il giorno dopo l’arresto dal pretore di Varese Giorgio Zanzi per discutere il “rischio terrorismo” nella provincia. Ma il procuratore Antiterrorismo e Antimafia Franco Roberti, ospite di un’emittente televisiva, ha sì parlato di una «cellula di presunti jihadisti», ma ha anche ammesso che «il loro livello di operatività era invece basso», proseguendo che «non abbiamo trovato tracce di avvio di esecuzione dei progetti di attentati. Non abbiamo trovato armi, esplosivi o altri materiali. Siamo intervenuti in fase molto anticipata».
Fatti e supposizioni
Singolari dichiarazioni, queste di Roberti. I fatti concreti non sono granché. I nostri organismi di sicurezza hanno sorvegliato delle persone evidentemente indiziate in quanto collegate a due “foreign fighters” marocchino-lombardi, dei quali uno morto e un altro scomparso con la famiglia. Corretta procedure ispirata a una strategia preventiva del tutto condivisibile e lodevole. Ne è emerso il quadro di un piccolo ambiente nel quale circolano fanatismo jihadista, rancore, propositi di attentati. Basta ciò a definire il gruppetto dei quattro arrestati una “cellula di jihadisti”, sia pure “presunti”? Le chiacchiere e le millanterie sono davvero “propositi”? E in quali concreti progetti, in quali credibili azioni se non effettuate quanto meno pianificate e preparate si sarebbero tradotti? Livello di operatività “basso”, lo ha definito Roberti: certo, più basso di così sarebbe difficile. Ammettendo che tracce concrete di attentati non se ne sono trovati, egli aggiunge che evidentemente si è intervenuti in fase “molto anticipata”.
Siamo davanti a un interessante caso di costruzione della lotta contro il terrorismo. Si beccano due chiacchieroni della profonda provincia lombarda, quella il cui governo regionale vorrebbe impedire la costruzione delle moschee (e forse, scegliendo una via diversa da quella della negazione di un diritto costituzionale, magari seminerebbe anche in giovani teste calde un po’ meno di rancore, anticamera dell’odio e quindi del terrorismo).
Sottoposti a intercettazioni telefoniche, informatiche eccetera, i due palesano insani propositi a sfondo terroristico: o comunque fanno chiacchiere che fanno pensare a propositi, se – come sostiene il difensore degli arrestati – «fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». Anche le due donne sono giustamente messe sotto osservazione. In situazioni come quelle di oggi, non si può abbassare la guardia: nulla va trascurato, nemmeno le chiacchiere di due esaltati. In fondo, un marocchino-varesotto a morire in Siria per il califfo c’è andato davvero; e forse ce n’è un altro che combatte ancora.
Ma quel che non torna è l’allarmismo con il quale i media e alcuni politici hanno accolto, ricostruito e commentato tutta questa vicenda. Ammettiamo adesso che, fra qualche giorno o settimana o mese, Abderrahim e Salma, Abderrahman e Wafa, vengano rimessi in libertà in quanto a loro carico non è emerso nulla; e magari, se non protetti dalla cittadinanza, espulsi dal paese. Il ridimensionamento della faccenda della cellula lecchese-varesotta sarà inteso, accolto e valutato con spirito pari a quello che ha accolto l’incriminazione dei sei? E se tutto fosse, a dirla col vecchio Shakespeare, “a much ado about nothing” (molto rumore per nulla), com’è successo tante altre volte nel nostro paese? Ricordate la faccenda del famoso supposto terrorista che secondo certi giornali e certi politici avrebbe voluto far saltare la chiesa di San Petronio a Bologna? La notizia, è il caso di dirlo, era una bomba: ma quando si rivelò una bufala nessuno quasi ne parlò. E oggi, a distanza di qualche anno, negli elenchi maniacali di chi sostiene che “siamo in guerra” (e magari ci siamo davvero: ma non come dicono loro…), ogni tanto riaffiora anche l’attentato alla chiesa di San Petronio.
Le ragioni profonde
Il terrorismo è una minaccia effettiva. Ma c’è chi pensa che anziché chiedersi quali ne siano le ragioni profonde è più conveniente sfruttare la paura: anche perché comprendere la causa ultima e più profonda di quel che sta accadendo nel mondo, e i colossali interessi che ne sono causa, e le non meno colossali ingiustizie ch’essi generano, potrebbe minacciare poteri e profitti di molti. E allora è meglio far paura: magari facendo ingigantire i pur effettivi pericoli, magari mischiando tesi e ipotesi, prove e indizi, accertato e probabile, vero e falso, effettivo e virtuale; e magari sbattendo il mostro in prima pagina affinché esso, con la sua ingombrante mole, nasconda tanti mostriciattoli che dietro di lui continuino a commettere indisturbati le loro infamie.
Per questo, nel caso della presunta cellula terrorista lecchese-varesotta, si mischiano intercettazioni effettive, terrorismo reale, esegesi approssimative, romanzi travestiti da memoriali, analisi di criminologi che – delineando la personalità mitomane e megalomane di un aspirante alla guerriglia terroristica che probabilmente non ha mai fatto nulla per diventare un autentico guerrigliero – finisce con l’instillare il dubbio che un “immaginario distorto” (solitamente surrogato inibitorio di un’azione criminale) possa diventare invece prima o poi trasformarsi nella premessa a un crimine autenticamente commesso. È così che, nei sistemi mediatici delle democrazie avanzate, ipotesi di comodo funzionali a scelte politiche vengono contrabbandate come realtà sostenute da prove certe
Aveva ragione il vecchio Arturo Graf: «Terribile è la forza delle cose che non sono». Perché le cose che non esistono, mischiate ad altre che invece purtroppo ci sono, aumentano la confusione e la tensione: e questo paese è pieno di gente che alla confusione e alla tensione di tiene, che su di esse ha edificato carriere mediatiche e politiche.
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