Eventi d'arte made in Como?/1
Tesori in cerca di un'occasione

Archivio, Pinacoteca e Museo traboccano di pezzi che potrebbero animare un'esposizione. Le risorse sono scarse e la politica culturale ha più che mai bisogno di idee: "La Provincia" promuove un confronto a tutto campo

Che senso ha parlare di "grandi mostre" in una città di provincia? La domanda - legittima, nella stagione in cui ripartono le esposizioni d’arte - si colora di uno speciale interesse per Como. È recente la querelle sui costi dell’ultimo evento curato dal Comune, nelle sale di Villa Olmo, dedicato a Klimt, Schiele e ai capolavori del Belvedere di Vienna. Per farla breve: la mancata copertura dei costi mette in forse l’allestimento del 2009 e ipotizza una cadenza biennale. Ma torniamo alla questione iniziale. Se guardiamo alla cronaca, ci rendiamo conto che esiste una tendenza forte, riconducibile all’idea che una mostra è "grande" per il progetto che la muove, al di là della fama dell’artista cui è dedicata. In questo trend, il legame con le risorse del territorio appare decisivo, insieme ad un oculato marketing. Mantova, con i suoi 46 mila abitanti, è circa la metà di Como: è riuscita a imporsi, nei cartelloni d’autunno, con la mostra su Matilde di Canossa (per una parte allestita a Reggio Emilia), la "comitissa" che riuscì a mettere ko un imperatore. Gran donna, certo, ma meno mediatica di un Picasso o un Mirò. Eppure la mostra, in tre sedi, si presenta ricchissima di rimandi. Altro esempio: Pisa, che con i suoi 85 mila abitanti si avvicina alle dimensioni comasche, investe le sue risorse nella mostra «Pisa e i Lorena», già ben visibile sui media, anche per la lettura di ampio respiro - data a una pagina di storia apparentemente molto "locale". Tra le mostre in cui le risorse del territorio si intrecciano virtuosamente a collaborazioni con istituzioni di profilo internazionale, basti ricordare la retrospettiva su Garofalo, che ha permesso a Ferrara di rilanciare, grazie alla Fondazione Ermitage Italia, un pittore estense pressoché ignoto, ma capace di portare in città quasi 70 mila visitatori. In tempi di risorse pubbliche ridotte, la politica dell’arte, specie nei centri di provincia, richiede soprattutto di investire nelle idee. Ma anche di valorizzare i propri gioielli, senza per questo cancellare del tutto i "grandi eventi" come quelli di Villa Olmo. Va benissimo "rispolverare" la mummia di Isiuret in occasione della Settimana Egizia. E, tuttavia, perché non far tesoro della lezione del Museo del Tessuto Ratti, che dalle sue cassettiere è riuscito a tirar fuori una mostra all’anno negli ultimi due anni (Badiali, 2007; Ravasi, 2008)?

Vera Fisogni

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Mostre made in Como. Aprire gli archivi, i magazzini, o semplicemente le bacheche dei musei cittadini, e dare risalto e risonanza nazionale a collezioni e pezzi unici. Che ne pensano gli addetti ai lavori? Il consenso non è scontato: se Lucia Ronchetti, direttrice dell’Archivio di Stato, sarebbe ben lieta di dare visibilità all’enorme patrimonio di cui è virtualmente depositaria, per Lanfredo Castelletti e Chiara Milani, direttori rispettivamente dei Musei civici e della biblioteca, la strada delle piccole grandi mostre non è la più adatta per valorizzare il patrimonio locale.
«Le collezioni della pinacoteca e del museo archeologico sono già valorizzate dalle esposizioni fisse - dice Castelletti, che peraltro annuncia una probabile mostra nel 2009 dei disegni di Antonio Sant’Elia - Nei magazzini troviamo quasi solo materiale che duplica quello esposto o che versa in condizioni peggiori. Oppure ci sono oggetti che per motivi di conservazione non si possono esporre in modo permanente, come i disegni di Sant’Elia, che molti anni fa erano in mostra e ancora oggi ne portano i segni. Sono consultabili su supporto digitale, è possibile esporli solo per brevissimo tempo e a rotazione, come probabilmente faremo nel 2009». Per il direttore dei musei comaschi la politica delle mostre rappresenta un rischio dal punto di vista finanziario ma anche da quello del riscontro: «Si può fare un enorme battage pubblicitario - dice - e poi rimanere in fiduciosa attesa: più di un museo ha tentato il colpo, non a tutti è riuscito. Per esempio potremmo restaurare il Carro della Cà morta - cosa che peraltro sarebbe doverosa - e allestire una mostra: ma per quanto importante e prezioso, il Carro non è l’Uomo del Similaun, non garantirebbe un flusso continuo di pubblico. Se poi ipotizziamo per il restauro una spesa di 100 mila euro, è evidente che anche dal punto di vista economico l’operazione sarebbe azzardata. No, il museo deve essere valorizzato in sè: non dimentichiamo che ospita la più grande collezione di materiale di età celtica».
E la pinacoteca? Annovera, per esempio, un Ghirlandaio e un Bronzino: «Ma anche qui, noi lavoriamo sui tempi lunghi - ribadisce Castelletti - L’approccio di chi lavora a un museo è del tutto diverso da quello di chi organizza una mostra». A Lucia Ronchetti, direttrice dell’Archivio di Stato, piacerebbe invece molto rinverdire i fasti delle grandi mostre organizzate negli anni Ottanta sul catasto di Maria Teresa, su Sant’Abbondio (che fra l’altro in quel periodo sembrava potesse accogliere l’Archivio) e sulla vocazione lariana per la seta e il commercio di tessuti.
«Dopo di allora - racconta la direttrice - per una concomitanza di cause interne ed esterne di ordine organizzativo e finanziario, di mostre non ne sono più state organizzate». Ma il materiale è tanto e tale che basterebbe solo scegliere: a partire dai diplomi imperiali di Federico Barbarossa, uno dei quali, oggetto dell’attenzione degli studiosi non solo italiani, è stato pubblicato di recente su queste pagine. «Ma gli ambiti che potremmo testimoniare sono moltissimi - spiega la direttrice - Tuttavia una mostra solo documentale presuppone un pubblico altamente specializzato: meglio associare, per esempio, documenti e reperti architettonici. Si potrebbe pensare a una mostra sul Broletto e gli Statuti del Comune, che noi conserviamo. Particolarmente prezioso è il cosiddetto "volumen magnum" del 1335, detto anche "Incatenato" perché si trovava nel Broletto, legato a una catena, per la consultazione del pubblico. Era una sorta di Gazzetta ufficiale: conteneva tutta la legislazione a partire dal XIII secolo.
Conserviamo anche gli atti civili e penali del tribunale austriaco relativi all’antica provincia di Como, che comprendeva anche Sondrio, Varese e Lecco: un fondo documentario incredibile, seimila buste che fino a cinque anni fa non erano consultabili perché non erano ancora stati inventariati. E ancora, abbiamo tutti i fogli matricolari del Distretto militare dei nati dal 1843 delle province di Como e Lecco». Il tutto consultabile, fatte salve le riserve imposte dalla legge sulla privacy (i dati relativi alla salute e all’orientamento sessuale sono tutelati per 70 anni, quelli sull’appartenenza a partiti politici o confessioni religiose per 40). Non è invece il pubblico delle mostre, secondo la direttrice della biblioteca Chiara Milani, il destinatario della ricca collezione di stampe, disegni, manoscritti, documenti d’archivio, cartoline e fotografie che testimoniano la storia locale: «Sono pezzi fragili e raffinati - spiega - che necessitano una preparazione culturale adeguata per essere compresi e rappresentano documenti consultati regolarmente dagli studiosi». Fra i più significativi, alcuni disegni dei Razionalisti: «Si tratta di materiali molto delicati che, allo stato attuale, non possono essere esposti», precisa la direttrice. Finora la biblioteca non si è fatta promotrice di grandi mostre: «La biblioteca organizza piccole esposizioni di libri antichi, limitate alla vetrina disponibile al primo piano, e a supporto di attività culturali organizzate o ospitate dalla biblioteca. Ritengo - conclude la direttrice - che i materiali della biblioteca possano, come avviene di consuetudine anche in altre biblioteche, essere utilizzati quali materiali a corredo di altre esposizioni a tema organizzate dall’assessorato cultura».

Barbara Faverio

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Luciano Caramel (Cattolica):
"Rilanciare i musei, puntare
a Sant'Elia e all'Astrattismo"


di Luciano Caramel

La discussione sulle "grandi mostre" a Como e sull’implicito loro rapporto con i musei e il territorio nel quadro della politica dell’arte delle istituzioni comasche è tutt’altro che locale. Pur stimolata da motivazioni specifiche e innescata dalle polemiche sulle esposizioni recenti di Villa Olmo, si inserisce in un problema e in un conseguente dibattito sempre più vivi a livello nazionale. Che dura da anni e che ha provocato nel maggio scorso un importante documento della sezione italiana dell’Icom, l’organismo mondiale che si occupa dei musei, che fin dal titolo mette esplicitamente a fuoco i termini del confronto: «Mostre-spettacolo e Musei: il pericolo di una monocultura e il rischio di cancellare le diversità culturali». Ne consiglio la lettura, ad evitare la riduzione del "contendere" ad un livello municipalistico, fuorviante e dannoso, qualsiasi sia la tesi che si vuole sostenere. Qui mi limito a segnalare la "raccomandazione", rivolta proprio, tra gli altri, agli amministratori, di tenere in conto primario il patrimonio museale. Che può dare "soddisfazioni" meno immediate, anche in termini di consenso politico, ma che non può essere posposto alle mostre. Le quali, ed è un altro dei punti caldeggiati dall’Icom, non solo non devono sopraffare l’attività museale, ma piuttosto integrarla e potenziarla. È in siffatta sinergia che va inserita l’attenzione alle ricchezze delle nostre collezioni pubbliche, di cui si dà in queste pagine un assaggio. La loro più larga utilizzazione, anche per mostre temporanee, negli stessi musei e fuori, in città e altrove, avrebbe conseguenze positive sul piano culturale. Che in questo ambito deve essere l’obbiettivo primo di un ente pubblico. Non, invece, la ricaduta sulle fortune del turismo e meno che meno il profitto. Tanto che l’Icom ammonisce di non praticare richieste di pagamenti in denaro sui prestiti delle proprie opere a mostre - come oggi fanno non più solo Paesi in difficoltà, ma persino musei come il Louvre - «in modo da non mettere a rischio il valore immateriale e non commerciabile dei beni culturali e per non essere costretti, in un momento di progressiva riduzione delle risorse, a prendere decisioni motivate esclusivamente da un immediato beneficio economico». Da non escludere, come prova, in una città come Verona, la chiusura del rilevante spazio espositivo comunale di Palazzo Forti per destinarlo a fini più redditizi. Venendo alla progettazione delle "grandi mostre", credo che si debba evitare di cadere nell’offerta esclusiva di spettacoli effimeri (sintomatico il diffondersi della definizione "eventi"), ma programmare, con i tempi necessari, esposizioni di un effettivo spessore culturale. Anche - quindi non solo - su temi radicati nella storia del territorio. Come, per portare un esempio, in positivo, relativo al Novecento, è stato annunciato che si dovrebbe fare per il centenario della fondazione del Futurismo (un argomento di portata internazionale) attraverso una mostra del comasco Antonio Sant’Elia, protagonista in architettura di quel movimento. Un soggetto insieme "locale" e, nelle stesse sue relazioni con Vienna, aperto, come sempre nella cultura, a temi e situazioni non solo locali. Analogamente, e nei medesimi termini non riduttivi, si potrebbe pensare al Razionalismo architettonico e all’Astrattismo comasco degli anni Trenta, come feci, ormai vent’anni fa, e proprio anche negli spazi di Palazzo Volpi, nella mostra «L’Europa dei razionalisti», che portò in città opere di artisti e architetti di prima grandezza. Analogo discorso può valere per l’arte dei secoli più remoti, dal romanico, al rinascimento, al barocco, al neoclassicismo, di cui Como e provincia vantano innumeri capolavori, talora addirittura da scoprire. (* Professore ordinario di Storia dell’arte moderna e contemporanea - Università Cattolica)

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Intervista a Flavio Caroli. La provocazione:
"Bollino verde per le buone idee,
rosso per eventi preconfezionati"



«Le grandi mostre d’arte? Le voglio con un bollino, assegnato dal Codacons, per accertarne le qualità e evitare brutte sorprese al visitatore – utente». Con la consueta chiarezza comunicativa, Flavio Caroli, critico d’arte, scrittore, ordinario di Storia dell’Arte Moderna alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dà il suo personale e non banale "consiglio” per la realizzazione di eventi espositivi all’altezza del ruolo, che garantiscano una seria progettualità, contenuti qualitativamente ineccepibili e attrazione nei confronti del pubblico. Con Caroli che, nella sua carriera ha saputo fondere il rigore scientifico alla capacità comunicativa, manifestata anche in tv, parliamo proprio di come deve essere pensata una mostra e come evitare i rischi di incappare in «mostriciattole».

Professor Caroli, ha ancora senso oggi pensare a mostre di grandi dimensioni, magari preconfezionate?

Direi che i tempi sono cambiati e che, anche a causa delle mutate condizioni economiche, sia più saggio, oggi, pensare a mostre più piccole, magari legate al territorio in cui vengono progettate, veramente "pensate" per offrire contenuti autentici e non deludere il visitatore.

Come fare per evitare gli eventi espostivi a pacchetto?

Io ho un’idea che mi sembra interessante. Vorrei che il Codacons, magari, attribuisse ad ogni evento espositivo un bollino.

Di che tipo?

È semplice. Il bollino verde, come una certificazione di qualità, dovrebbe segnalare che la mostra in questione è prodotta "in casa", che si basa su una pianificazione seria e su un progetto rigoroso.

E per chi non rispetta questi “parametri”?

Per gli altri un bollino, questa volta rosso, che segnali le proposte precotte, confezionate altrove e acquistate dagli enti locali che diventano solo degli "affittacamere". Credo insomma che si debba ben segnalare la differenza, spesso enorme, tra mostre organizzate in uno o nell’altro modo. È una sorta di bussola per il consumatore di arte, un soggetto che oggi non possiamo più trascurare.

Ponendosi nei panni di un amministratore che voglia organizzare una mostra da "bollino verde", da quale idea partirebbe?

La scelta può essere quella di legarsi al territorio, alle potenzialità culturali ed artistiche che questo esprime, alle realtà, pubbliche e private che già producono cultura. Penso per esempio alla mostra su Correggio che sta per essere inaugurata a Parma (l’inaugurazione è stata ieri, ndr) o a quella su Garofalo a Ferrara, solo per citare alcuni esempi.Una seconda via è quella di individuare temi monografici credibili, accattivanti, seriamente indagati e efficacemente proposti. Da qui potrebbe venire un grande successo, magari anche potendo contare su contatti internazionali e su un marketing della cultura che sia "didattica", educazione e che non si trasformi in uno specchietto per le allodole.

Come giudica la situazione italiana rispetto a quella delle realtà straniere?

Il fenomeno dei "blockbuster" dell’arte è solo nostro, purtroppo ma con il famoso bollino di cui parlavamo, le cose potrebbero cambiare.

Insomma, la ricetta della mostra perfetta sta nella fusione tra autorevolezza scientifica e comunicazione?

Certo e questo vale ancora di più se parliamo di arte contemporanea, un settore in cui il ruolo dell’ente pubblico è importantissimo. Anzi, vorrei anche qui dei bollini verdi per gli assessori capaci di realizzare mostre degne di questo nome sul modernismo. Non è da tutti.

Sara Cerrato

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