Guido De Monticelli:
«Il mio Gianrico Tedeschi»
L’intervista VIDEO

Il ricordo del grande attore morto i luglio scorso nelle parole del regista che lo volle come Pedagogo nell’ “Elettra” di Sofocle. QUI IL VIDEO dell’Intervista dal bosco di Lucia Valcepina

Era stato “Pantalone” nell’Arlecchino strehleriano e Peachum nell’Opera da tre soldi, ma nella primavera del 1990, nel maestoso scenario del Teatro greco di Siracusa, Gianrico Tedeschi vestiva i panni del Pedagogo dell’Elettra sofoclea.

Era un ruolo inusuale quello che il regista Guido De Monticelli aveva pensato per lui, una scelta che racchiudeva in sé una peculiare idea d’arte, tra formazione, inganno e gioco teatrale.

«Semplice, buttato via, moderno…», una delle celebri battute di Tedeschi: forse in quell’attitudine c’era l’essenza del Pedagogo?

Si trattava di un’immagine, di uno spunto, non privo di una sua verità. In uno spettacolo come l’Arlecchino, in cui i lazzi e le improvvisazioni erano fissati negli anni sempre uguali, quella battuta fu invenzione improvvisata da Tedeschi, ed entrò a sua volta nel repertorio delle gag tramandate: ancor oggi, Bongiovanni, l’ultimo Pantalone, pronuncia quella battuta. Io, all’epoca, cercavo qualcuno di sostanzialmente “teatrale”. Il personaggio della tragedia sofoclea era misteriosissimo, pieno di questioni irrisolte: un vecchio precettore – e Gianrico aveva già la sua chioma bianca – che, al tempo stesso, era un ingannatore. E quale maggiore ingannatore è, nell’espressione umana, l’attore, il giocoliere dei sentimenti umani? Ora si trattava di far sì che un grande monologo riprendesse la sua grana ingannevole, dove l’inganno si coniuga con il progetto formativo del giovane.

Quali peculiarità, insieme a queste due tensioni, aveva in sé Tedeschi?

Gianrico poteva affrontare il personaggio non nel suo aspetto di oralità – tra l’altro, a Siracusa, l’oralità aveva bisogno di grandi polmoni – ma attingendo ad altri ambienti e linguaggi. Credo si sia trattato di un unicum per lui. Avevo scelto Micaela Esdra per Elettra, Paola Mannoni per Clitennestra, e quando proposi Tedeschi come Pedagogo, l’idea fu subito accolta. L’innesto tra attori di pasta tanto diversa fu estremamente proficuo. Gianrico si presentò con la compagna Marianella Laszlo, e il mio ricordo di lui è quello di una persona umile, come i grandi vecchi del teatro, veri protagonisti di questo strano mestiere… in loro non c’è boria ma quel candore che ne fa persone gradevolissime, capaci di seguirti e, al tempo stesso, di precederti, aiutarti ed essere recettivi, persone innocenti come “vecchi fanciulli”.

Un’importante matrice comune per voi fu di certo il lavoro con Strehler…

Sì, in quell’ambiente si creava una consuetudine, un comune ammiccamento. Gli attori di Strehler, al contrario di quanto si è detto, erano estremamente propositivi e la creazione avveniva sul palco in uno scambio profondo (…) Detesto l’idea di manifestare rimpianti, ma so che ognuno costruisce in se stesso la propria generazione e quella dei propri pedagoghi. Personalmente, ho sempre avuto una grande attrazione per il Romanzo di formazione, per ciò che in teatro è l’idea della costruzione di sé, e il succo del lavoro di Strehler era nell’osservazione strepitosa dell’altro, del mondo e dell’attore… Penso, in quegli anni, a Fellini che osservava i volti sul tram che lo portava a Cinecittà, e da lì traeva quello che gli altri scambiavano per grottesco: non era gusto della deformazione, la sua, ma capacità di vedere la realtà. Strehler diceva: io di certo non saprei scrivere una battuta di Čechov, però, forse, la so esprimere meglio di altri. Tornando all’idea del Pedagogo, si tratta della ricerca di quel filo che unisce un’arte misteriosa e la rende trasmissibile, l’aspetto della pedagogia che contiene l’amore.

L’accoglimento piuttosto dell’idea a priori?

Sì, quante cose perdiamo nel tentativo di trovare l’idea stupefacente… Oltretutto, c’è un grande privilegio in chi ha la ventura di poter interpretare un testo come l’Elettra, un testo talmente lontano da noi da porsi come fallimento dichiarato in partenza. Rispetto allo studioso che parte dalla lingua, di cui anche noi ci nutriamo, essere lì e poter toccare l’azione, poterla agire, è qualcosa di impagabile, forse una delle poche vie di penetrare la materia. Copeau era convinto che nella partitura di Scapino fosse possibile riconoscere il passo di Molière, il tono, il ritmo, l’indolenza nell’entrata, il respiro… e diceva: sarebbe bello se potessimo stabilire che ogni testo ha una e una sola edizione possibile. Naturalmente non è così, ma è utile pensarlo. È utile pensare di “andare verso” qualcosa e non di “far venire” qualcosa verso di te. Sei tu che ti metti in moto, che segui il Pedagogo e compi il passo d’amore, a volte severo e terribile, verso qualcosa che non afferrerai mai fino in fondo.

Dopo il debutto come attore al Piccolo Teatro di Milano e il lavoro decennale, come regista e attore, nella compagnia Il Gruppo della Rocca, Guido De Monticelli ha firmato i suoi spettacoli di prosa nei principali teatri e festival italiani dedicandosi alla reinvenzione di grandi opere narrative, da Kafka a Pirandello, da Buzzati a Bulgakov, fino a Gogol’ e Dostoevskij. Tra il 2009 e il 2015 ha diretto il Teatro stabile della Sardegna. Si è occupato inoltre della regia di opere liriche in numerosi Festival italiani e internazionali, e ha vinto il premio Abbiati 1998 per la miglior regia. Di recente ha riproposto e interpretato il monologo “Dissipatio H.G.”, dal romanzo di G. Morselli, con le musiche di Alessandro Castelli.

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