Cultura e Spettacoli
Lunedì 26 Gennaio 2009
"Ho voluto bene al Duce
Quell'uomo era mio padre"
In esclusiva sulle pagine de "La Provincia" la lettera in cui Elena Curti, nell'agosto 1945, ammise di avere un "legame di sangue" e di essere figlia naturale di Benito Mussolini. La scoperta è del giornalista e storico comasco Roberto Festorazzi
Il documento inedito che offriamo all’attenzione del lettore è di un’importanza storica eccezionale. È la dichiarazione che valse a Elena Curti, figlia naturale di Mussolini, la liberazione dalle carceri comasche e anche la sua salvezza, visto che, nel processo a suo carico, davanti alla Corte d’Assise straordinaria di Como, rischiava una condanna ad almeno vent’anni di carcere, con l’accusa di collaborazionismo. Poche righe, ma pesanti come un macigno, che si possono riassumere semplicemente così: «Ebbene sì, sono la figlia del Duce». Siamo nell’agosto del 1945. A Como, come del resto in tutta Italia, specie nelle regioni del Nord, tira una gran brutta aria per i naufraghi del ventennio mussoliniano. La resa dei conti nei confronti dei "vinti" è tutt’altro che conclusa: e, quando non si risolve per le strade, con le esecuzioni sommarie, procede inesorabile nelle aule di tribunale, non di rado con condanne alla pena capitale o all’ergastolo.
Elena Curti, nata il 19 ottobre 1922, era figlia della modista milanese Angela Cucciati, una bellissima donna, e di Benito Mussolini. Solo dopo aver compiuto diciott’anni seppe dalla madre la verità su chi fosse suo padre. Il primo incontro tra il Duce e la figlia naturale avvenne il 13 aprile 1941, a Palazzo Venezia. Elena poté vedere il padre una trentina di volte, soprattutto durante i seicento giorni di Salò. Veniva ricevuta dal Duce, di regola, il giovedì pomeriggio, ed erano colloqui di grande interesse umano e storico. Perché la ragazza, al tempo ventenne, era parecchio intelligente: inserita nell’entourage di Alessandro Pavolini, segretario del Partito fascista repubblicano, riferiva a Mussolini, in via confidenziale, su quanto si pensava e si diceva dentro il partito. Elena, che oggi ha 87 anni e vive nell’alto Lazio, fu tenace nel manifestare fino all’ultimo il suo attaccamento al padre naturale: tanto è vero che lo seguì fino all’epilogo, unendosi alla famosa autocolonna nella quale il Duce e i gerarchi furono fermati e arrestati, a Dongo, il 27 aprile 1945.
Elena rischiò seriamente la pelle. Se non finì al muro, lo si dovette all’intervento del capitano "Neri", Luigi Canali, e anche a quello di padre Pacifico Valugani, coraggioso frate francescano del convento donghese. Dalle celle della caserma dei carabinieri di Dongo, Elena fu trasferita a Como, dove venne richiusa nel carcere di San Donnino e alla palestra Mariani di via Perti. La ragazza ammise di essere la figlia naturale di Mussolini, e Luigi Carissimi-Priori, elemento di spicco della frazione moderata della Resistenza e giudice istruttore nei processi che si celebravano in Corte d’Assise, fece il possibile per alleggerire la sua posizione, perché si rese conto che la detenuta non si era macchiata di alcuna infamia. Aveva solo un papà, diciamo così, "ingombrante". Per questa ragione, si giunse alla decisione di offrire alla giovane una onorevole via di scampo: ammettere ufficialmente di essere figlia del Duce, rivolgendosi direttamente al pubblico ministero della Corte d’Assise straordinaria, il dottor Tribuzio. Si trattava di una formula irrituale, perché la Curti, giustamente, rifiutava di essere data in pasto alla morbosa attenzione dell’opinione pubblica, o di compiere dichiarazioni in tal senso davanti alla Corte. Come la stessa figlia naturale del dittatore ha raccontato, in un suo libro, venne anche organizzata una conferenza stampa con cinque giornalisti, i quali chiesero insistentemente alla giovane delle rivelazioni. Ma Elena rifiutò energicamente di concederne.
Quasi 65 anni dopo, emerge tuttavia il documento di cui si parlava. Una lettera all’«Eccellenza Tribuzio», datata 16 agosto 1945, nella quale la Curti, con grande dignità, precisava anzitutto che l’accusa di "collaborazionismo" a lei rivolta, poteva anche essere intesa in un’accezione non infamante. Scrive infatti l’imputata "eccellente": «Se "collaborazionismo" sottintende il contributo donato da un individuo più o meno in buona fede, ad opere e istituzioni che furono causa delle sciagure della Patria, io mi sento immune dalle pene contemplate per tale reato. Infatti io ho amato l’Italia semplicemente come da giovani si può amare un ideale grande, come si ama l’amore». Subito dopo, la dichiarazione decisiva e scagionante: «Ho frequentato Benito Mussolini, l’arbitro delle sorti del mio paese è vero, ma soprattutto perché legata a lui da vincoli di sangue (corsivo nostro, ndr). E gli ho voluto bene. Dichiarai con convinzione di essere figlia di Bruno Curti sperando di evitare uno scandalo, perché mia mamma è per me il bene più santo al mondo. In un primo tempo provai a chiedere discrezione e ora so che sarebbe sempre assurdo pretenderlo dal prossimo. Ho detto la verità, ma forse ho fatto male. Ora vorrei chiedere comprensione e mi sembra una cosa molto ridicola, se mi guardo intorno. Mi limito a pregare lei di sollecitare il mio interrogatorio e di credere che non voglio convincermi, ad onta delle molte parole spese da filosofi e psicologi a questo proposito, che la giustizia non è di questo mondo. La ringrazio e la ossequio. Elena Curti». Mistero svelato, dunque. Ma aggiungo subito che, ancora oggi, per chi - come chi scrive - l’ha conosciuta e ha avuto il piacere di avvicinarla, Elena resta un grande enigma della nostra storia.
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