Il poeta Franco Loi
"Dio si racconta solo
con gli occhi di una donna"

Echi stilnovistici del suo "Voci d'osteria" (Mondadori) che si presenta il 17 ottobre alla Circoscrizione 6

Questa sera alle 21.25, nella Circoscrizione 6 di Como in via Grandi 21, Franco Loi presenta il suo ultimo libro, «Voci d’osteria», ospite del Gruppo letterario Acarya. Dialoga con l’autore il giornalista de «La Provincia» Pietro Berra.

di Pietro Berra

«Mi insinuano della lingua del papà / o della mamma o d’un qualche fratello. / La lingua è di Dio [...]». Così esordisce la prima delle "Voci d’osteria" che danno il titolo all’ultima silloge di Franco Loi, edita da Mondadori. Sembra quasi una dichiarazione di poetica: si attaglia perfettamente all’autore, di madre emiliana e padre sardo, nativo di Genova, ma a cui la musa ha ispirato versi sempre in dialetto milanese, fin dalla prima raccolta, "Strolegh" (1975).
Ma più che di musa, come si diceva ai tempi di Omero, al quale Loi è il più affine tra i contemporanei in virtù dell’attenzione dedicata al suono e all’oralità della poesia, bisognerebbe parlare di "angel", titolo di un poema del 1981, o, appunto, "Diu", entità sempre più presente nelle raccolte recenti del poeta, contraddistinte da un’incessante ricerca spirituale.

Quell’espressione, «la lingua è di Dio», sintetizza il suo pensiero sull’ispirazione poetica?

Anche. Però sono proprio voci di osteria, piuttosto che di tram o d’ospedale, insomma i vari luoghi dove io ascoltavo e segnavo sulla mia agendina, o su un quaderno, quello che sentivo dire dalla gente. Cose, a volte, straordinarie, di cui neanche si rendevano conto fino in fondo. D’altra parte è vero che io penso che il verbo venga dall’interiorità. Ho sempre parlato italiano, ma nel momento in cui mi sono messo a scrivere di persone popolane, allora è uscita fuori questa mia lingua.

Ma, oggi, il milanese chi lo parla?

Non le ho mica sentite adesso queste voci, ma negli anni Cinquanta-Sessanta, e qualcuna nei Settanta, quando la gente ancora usava il dialetto. Magari erano immigrati, ma cercavano di parlare il milanese per sentirsi parte della comunità. Quando Maurizio Cucchi mi ha chiesto di fare un libro per Mondadori, ho ritirato fuori questi appunti. E me ne restano così tanti, che potrei fare un altro libro.

Un’altra di queste voci, che parla di giovani che non sanno dialogare, siano essi «comunisti o del prevosto», sembra riflettere il suo percorso politico: lasciò le battaglie della sinistra radicale, rifiutandone la violenza, per accostarsi a Dio, rifiutando però il perbenismo e le rigidità della chiesa.

C’è del vero. A livello popolare, la spiritualità vuol dire avere dentro di sé un’etica, rispettare l’altro, credere che con gli altri si possa fare una società. Perciò molti diventarono anche comunisti, allora. Mi spiego con un aneddoto: mio zio era socialista e, quando si sposò la figlia, la accompagnò fino alla porta della chiesa è si fermò. «Zio, perché non entri?», gli domandai. E lui: «Perché Gesù è fuori dalla chiesa...». Erano contro la chiesa, perché storicamente ha scelto la politica piuttosto che scegliere Dio. In generale, alcune voci le ho riportate perché le condivido, altre semplicemente perché mi sono sembrate scioccanti e terribili.

Tra le voci "scioccanti" ve ne sono alcune legate ai conflitti familiari: rapporti di amore-odio che sfociano nella violenza. Un problema insuperato.

Certo che è insuperato, perché quando si è ragazzi ci si innamora per tante ragioni, che non hanno niente a che vedere con la conoscenza dell’altro. Si ama, a seconda dei casi, la mamma che c’è nella donna, la sorella che non si è avuta, piuttosto che il bisogno di rompere la solitudine o di possesso fisico. Quando poi si è soddisfatti questi desideri, c’è lo scontro dei caratteri. Ci si accorge che non ci si conosceva a sufficienza per amarsi. Si impara poco alla volta a conoscersi, se si resiste. Il problema è che i ragazzi d’oggi, dopo tre mesi, gettano la spugna e si dividono.

«Un giorno mi piacerebbe parlare degli occhi, / gli occhi di donna...» dice in una poesia della sezione conclusiva, in cui "canta" con la sua voce e non più con quella degli altri. C’è qualcosa di stilnovistico? La donna come tramite per l’assoluto?

È vero che la donna è un tramite alla vita, che ha un particolare rapporto con le cose carnali e concrete. Ma c’è anche un’altra componente. Quando Dante arriva a vedere Dio, scrive: «All’alta fantasia qui mancò possa». Cioè esprime l’impossibilità di dire l’assoluto. Io dico che Dio è in tutte le cose. Nel rapporto con la realtà sentiamo un cosa - un fiore, una persona, il cielo, le stelle, gli alberi - e magari ci emozionano, però non sappiamo bene cosa sia l’essenza di queste cose. Tale impossibilità di dire è il nascondimento di Dio, come viene definito in teologia. Vorresti dirlo, come per gli occhi di donna, ma non sai come dirli. Allora dici qualcosa attorno, entri appena appena nel senso di questa impossibilità. La poesia, in fondo, è il dire ciò che è impossibile.

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