Il "filosofo" Marcello Lippi
"Como mi ha promosso"

Il ct della Nazionale, a margine della presentazione del suo libro "Il gioco delle idee", ricorda lo scontro Como-Pistoiese, al Sinigaglia, che portò entrambe le squadre in serie A

di Silvia Ortoncelli

4 luglio 2006. È il giorno della semifinale con la Germania e Marcello Lippi decide di rompere gli schemi: nessun allenamento di rifinitura per i ragazzi della Nazionale, «li chiamai a raccolta - racconta - e dissi loro: "Vi farò una sorta di lezione…». Niente schemi e strategie, il ct imbastisce un discorso sulla morte. I giocatori sono increduli ma la perplessità si fa presto curiosità. Lippi parla loro del dolore cieco che immobilizza chiunque abbia perso un familiare, uno strazio che solo l’amore e l’unione di una famiglia solida riescono non a sopire ma a canalizzare nella forza di andare avanti. Perché ricorrere a un simile argomento il giorno dell’appuntamento con la semifinale della Coppa del Mondo? E poi proprio nella sfida con la Germania, grande classico del calcio? «La morte, dopotutto, o per meglio dire la drammaticità del dover affrontare e metabolizzare il decesso di un familiare, non era altro che l’esasperazione di un concetto - quello di ostacolo o di difficoltà - con cui dobbiamo confrontarci quotidianamente». E che si supera grazie a un gruppo forte e coeso. È un Lippi per certi versi inedito quello che emerge nel suo libro "Il gioco delle idee. Pensieri e passioni a bordo campo" (Editrice San Raffaele, euro 12) presentato alla stampa giovedì sera a Milano. "La Provincia" lo ha incontrato e intervistato.

Marcello Lippi, quella che lei chiama la sua "filosofia di lavoro" ha come cuore il gruppo. A partire dal materiale umano di cui si dispone si cerca di lavorare al meglio per centrare l’obiettivo della vittoria. Le è mai capitato che questo meccanismo si sia inceppato?

La prerogativa che ho sempre inseguito nella costruzione di tutti i gruppi di lavoro dei quali ho fatto parte è di costruire una squadra dove ci fosse grande sintonia e voglia di mettersi a disposizione l’uno per l’altro. Le difficoltà le ho incontrate quando c’era un giocatore che voleva fare il primo attore. Allora ho cercato insieme a qualche compagno, magari il capitano, di fargli capire che doveva mettere le sue qualità al servizio della squadra. La maggior parte delle volte ci siamo riusciti, quando non ce la si fa quel giocatore va allontanato: non gli si deve permettere di rovinare il gruppo.

Il senso di responsabilità è quello che identifica, nella sua visione, il fuoriclasse. Crede che i giocatori siano coscienti di quanto rappresentano un modello felice per i ragazzini?

Il fuoriclasse è un atleta che non necessariamente ha doti tecniche eccezionali ma si mette sempre al servizio della squadra. Si è fuoriclasse in campo e fuori dal campo. Il campione, invece, è un giocatore che ha avuto in dono dalla natura qualità eccelse ma predilige l’individualismo. Ritengo che la maggior parte dei giocatori siano coscienti di essere un modello. I ragazzi che hanno vinto i Mondiali sono un esempio positivo per i giovani: hanno mostrato qualità e voglia di compattarsi. E si sono ripresi la stima dei tifosi in un momento non facile per il calcio italiano.

Già. Serviva Calciopoli per far riguadagnare senso di realtà al calcio, che è un gioco?

No. Guardi, per capire Calciopoli basta pensare alla forma di formaggio conservato in cantina. Col tempo si deposita della muffa, ma basta toglierla col coltellino, e il formaggio si può mangiare. Gli aspetti negativi del mondo del calcio sono stati evidenziati, anche se la stragrande maggioranza è sana. E mi auguro che in futuro ci siano sempre meno negatività.

È indubbio però che calciatori si ritrovano molto spesso, giovanissimi, con molti soldi in tasca. Non crede che gli ingaggi siano troppo elevati?

Le eccellenze sono superpagate in tutti gli ambiti, anche nel ciclismo. E poi la carriera di un calciatore finisce a 30 anni, perciò se guadagna un po’ di più degli altri non ci vedo nulla di male. Inoltre, dai 17 anni ai 30 anni, quando un uomo costruisce il proprio futuro, il calciatore dedica tutto allo sport.

Da agosto è tornato nuovamente al timone della Nazionale. Due anni fa, forte della vittoria, la acclamarono come l’allenatore che ha riscattato un Paese. Ha qualche timore per Sudafrica 2010, se dovesse fallire la doppietta…

No, non ho alcun timore. Ho 60 anni e conosco bene il mondo del calcio, attorno al quale c’è grande interesse e che spesso costruisce dei personaggi che quasi mai corrispondono alla realtà: io ad esempio, per certe interviste alla tv, passavo per essere un arrogante, un duro. Poi sa quante volte, conoscendomi, mi hanno detto: «ma lei è affabile e gentile!». È un mondo che va preso così com’è essendo sempre se stessi.

Il suo gruppo è aperto a tutti, campioni di Berlino 2006 e nuove leve. Intravede dei fuoriclasse fra i giovanissimi?

Beh! Fuoriclasse è una parola grossa. Ci sono degli ottimi giocatori giovani. Ma non voglio fare nomi perché altrimenti chi viene citato si siede sugli allori e chi non lo è scatena una polemica.

Ultima domanda. C’è qualche episodio che la lega a Como?

Sono venuto a Como in più di un’occasione. Nella stagione 1979-’80 giocavo con la Pistoiese e venni a Como a disputare la partita decisiva del campionato e con un pareggio fummo promossi in A sia noi della Pistoiese che il Como.

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