La villa romana riprende vita

In mostra a San Pietro in Atrio reperti e una ricostruzione inedita del sito di via Zezio. Lo scempio del cantiere del 1975 e l’apertura straordinaria di domenica 12 marzo

Pensando alla Como romana tornano in mente alcuni versi di Giampiero Neri, il grande poeta di origine erbese scomparso lo scorso 15 febbraio a 95 anni: «[...] radici che non dissero inutilmente / le ossa di qualche romano in provincia» (da “L’aspetto occidentale del vestito”, Guanda, 1976).

Giulio Cesare, fondatore di Novum Comum, e i suoi successori, di certo non parlarono “inutilmente”, se la nostra città è ancora disseminata delle loro “radici”. La sfida, duemila anni dopo, è riconoscerle e valorizzarle. Spesso sono nascoste sotto i nostri piedi, ma in alcuni casi ci passiamo - o persino ci viviamo - accanto senza nemmeno saperlo. Perché c’è un portone, o un cancello, o qualche altra barriera, che le cela alla vista, oppure soltanto perché sono irriconoscibili a un occhio non educato. Uno dei casi più clamorosi è la “villa romana” di via Zezio. Il cancello di accesso, da via Grossi, è peraltro spesso aperto, perché da lì transitano i dipendenti della scuola dell’infanzia “Gianni Rodari”, che parcheggiano proprio accanto al sito archeologico. È anche vero che quest’ultimo è piuttosto spoglio: sotto una tettoia trasparente di 37 metri per 8, costruita a protezione del poco che rimane, vediamo verso monte resti di un muro, che in un punto assume forma arcuata per fare spazio a una nicchia, ai suoi piedi passa una canaletta per l’acqua, affiancata da una pavimentazione di cui sopravvivono alcuni lacerti in lastre di pietra su sottofondo di cocciopesto.

Una mostra illuminante

Tuttavia, se si visita la mostra “Ri-trovamenti - 7000 anni di storia comense” - curata dalla Società Archeologica Comense con il Comune di Como e la Soprintendenza e allestita fino al 16 aprile a San Pietro in Atrio - si inizia a capire che cosa rappresenti quella specie di “veranda” affacciata sul nostro passato remoto e ad apprezzarla di più. L’esposizione in corso e il relativo catalogo inquadrano in maniera precisa, e differente rispetto al passato, la porzione riportata alla luce di un complesso che doveva essere molto più esteso, all’incirca da via Zezio fino a via Crispi: non si tratterebbe di un portico, bensì di un ninfeo, del quale viene proposta anche una ricostruzione grafica a colori (immagine qui a lato), realizzata da Mauro Fuggiaschi, a partire dai resti «tuttora visibili» che, come detto, «appartengono solo alla base delle strutture» e ricostruendo «l’alzato [...] facendo riferimento alla tipologia, nota da altri edifici, ed inserendo gli elementi mobili recuperati nella canaletta o in prossimità (tessere di mosaico, frammento di maschera, braccio di statua)».

È Stefania Jorio, ex funzionaria della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia, a proporre una interessante rilettura dei reperti della “villa di via Zezio”. «Com’è noto - scrive nel catalogo - la struttura fu interpretata come corridoio coperto destinato al passeggio, alle conversazioni, agli incontri del proprietario e dei suoi ospiti». «La nuova ipotesi», invece, «è che ci si trovi di fronte [...] a un bacino-fontana su cui prospettava un ninfeo a facciata rettilinea articolata da nicchie. Il tutto servito da un impianto idrico formato da due canalette parallele al bacino-fontana ed in rapporto evidente con il ninfeo a monte che vi scaricava l’acqua attraverso fistule fittili formate da coppi contrapposti». Dai frammenti scampati allo sciagurato cantiere di cui diremo più avanti, si deduce che «le esedre del ninfeo fossero rivestite da mosaici in tessere vitree policrome, anche se prevalentemente nei colori blu, azzurro e verde di varie tonalità, ed erano pavimentate, similmente alla vasca principale, con sottili lastre litiche di cui restano le impronte nel sottosuolo in cocciopesto; all’interno di esse dovevano trovarsi statue, fontane o altri accessori ornamentali, in cui l’acqua, zampillando da più bocche, giocava il ruolo fondamentale proprio di queste architetture».

Si trattava, evidentemente, di un edificio di lusso, con un «impianto sfarzoso elaborato sui modelli delle ville marittime dell’Italia tirrenica» e raffinati «decori parietali inquadrabili nel quarto stile pompeiano (età flavia)». Siamo al tempo degli imperatori Vespasiano, Tito e Domiziano (69-96 d.C.), il primo dei quali ebbe tra gli amici e più fidati consiglieri il comasco Plinio il Vecchio.

I Plinii e Luraschi

Proprio il possibile - ma allo stesso tempo impossibile da dimostrare - legame con i Plinii aveva reso particolarmente cara questa villa a un grande studioso della Como romana quale fu Giorgio Luraschi. Nel suo libro “Storia di Como antica” (1997) le dedica un capitolo, in cui sostiene che «strutture architettoniche ed elementi decorativi denotano [...] i gusti di Plinio. Con ciò, intendiamoci, non voglio sostenere che la villa fosse di Plinio ma soltanto che essa rispondeva a certe sue esigenze ed a certi suoi gusti quali risultano dalla stupende descrizioni che leggiamo nelle “Epistulae”».
Il pensiero corre in particolare alla lettera indirizzata all’amico poeta Caninio Rufo, in cui gli chiede notizie di Como e della sua «amenissima villa suburbana», con un porticato «dove è sempre primavera» e un «bagno che un gran sole riempie e circonda». È vero che nel ’500 Paolo Giovio aveva voluto riconoscere in questa descrizione il luogo su cui egli stesso costruì il Museo in Borgo Vico e che due secoli e mezzo dopo il suo discendente Giovan Battista affermerà che doveva trattarsi invece dell’attuale Villa Olmo, ma le caratteristiche climatiche corrispondono perfettamente a quelle della “Riviera di Como”, come verrà chiamata nel 1600 la sponda che si arrampica verso Brunate.

Già che abbiamo lasciato correre la fantasia, possiamo immaginare che davanti al ninfeo e alla vasca con i giochi d’acqua abbiano “preso il fresco” altri parenti e amici comaschi, di cui ci dà notizia sempre Plinio il Giovane nel suo epistolario. Magari il padre, che iniziò la costruzione di un tempio all’Eternità di Roma e dell’Augusto, in ricordo della figlia premorta Cecilia, come sappiamo da un’epigrafe conservata al Museo Giovio, o la madre Plinia, che raggiunse il figlio a Miseno, ospite del fratello di lei Plinio il Vecchio, e che per prima notò l’eruzione del Vesuvio. O ancora il prosuocero di Plinio, Calpurnio Fabato, patrono del municipio di Como (è scritto sempre nel lapidario museale), uomo di fiducia del genero in terra lariana e nonno della sua amatissima moglie Calpurnia.

I reperti meglio conservati erano già esposti nelle collezioni permanenti del Museo Archeologico, attualmente chiuso: si tratta della statuetta bronzea di una ‘‘Venera pudica’’ e di un’antefissa in terracotta con volto di Gorgone, più alcuni frammenti di intonaco dipinto. Tra i pezzi inediti aggiunti in mostra, si distingue la parte superiore di un’anfora «realizzata probabilmente lungo la costa tirrenica per commercializzare il famoso vino prodotto tra Lazio del Sud e Nord della Campania (I sec. a.C. - II sec. d.C.)».

La “villa di via Zezio” racconta anche altre storie, a chi sa ascoltare le pietre. La prima di un folle scempio: quello avvenuta nel 1975, quando le ruspe del cantiere per la costruzione dell’asilo distrussero tutto, prima che la Soprintendenza (avvertita nel mese di dicembre di quell’anno) potesse inventariare, studiare e valorizzare i ritrovamenti. «Una pagina molto triste per l’archeologia comasca - scrive Jorio - . Il danno è tanto maggiore quanto la scoperta è eccezionale e, al momento, unica». Luraschi ricordava persino di essersi aggrappato, con altri allora giovani e valorosi soci dell’Archeologica, ai camion che portavano via i materiali derivati dallo sbancamento. Invano, purtroppo. E non era il primo torto subito dall’antico edificio: già nel 1949, durante la costruzione dell’attigua casa Terragni erano emersi elementi di pregio (un pavimento a mosaico, un tronco di colonna in marmo cipollino ecc.), ma era rimasta inascoltata la richiesta dell’archeologo e monsignore Giovanni Barelli di eseguire scavi sistematici. Dai reperti trovati, inoltre, risulta che la villa fosse ancora abitata in epoca tardoantica.

Posizione strategica

Con fatica si è potuto ricostruire l’estensione della dimora per 700 metri quadri al livello più basso, affacciato sull’attuale via Zezio, cui dovevano corrispondere altre balze a monte destinate alle pertinenze rurali. Vicino scorreva il torrente Valduce, che alimentava le terme di Como romana e l’altro elemento strategico del luogo prescelto era, oltre all’esposizione al sole, alla vista del lago e alla protezione dai venti, quello viabilistico: di lì passava la strada che salendo in direzione di Garzola e Civiglio portava verso la Brianza fino a Bergamo. Non a caso domenica 12 marzo, con Fondazione Volta e Sentiero dei Sogni, termineremo alla “villa romana”, aperta per l’occasione dal Comune di Como, la passeggiata “Sulle orme di Plinio e Guglielma, antichi modernissimi”, che inaugura il Lake Como Walking Festival 2023 dedicato ai Plinii (info: https://plinioguglielma.eventbrite.it).

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