Cultura e Spettacoli
Mercoledì 22 Aprile 2009
Lo zampino di Terragni
sul palco del Licinium
Mentre realizzava il Monumento ai caduti di Erba, l'architetto razionalista visitò il cantiere del teatro all'aperto in costruzione, fornendo idee importanti. Lo sostiene Alberto Longatti, studioso di architettura, in occasione della presentazione del libro sugli 80 anni dell'edificio erbese, che si tiene il 23 aprile a Lariofiere
di Alberto Longatti
I latini chiamavano "genius loci" l’identità, più spirituale che fisica, di un luogo. Nelle sue lezioni sull’urbanistica, Aldo Rossi osservò che non sempre è palese la fisionomia di luoghi contraffatti dal tempo e da manipolazioni: occorre scavare, cercare che cosa nasconde la maschera creata da usura e superfetazioni. Lo devono aver pensato i fratelli Alberto e Federico Airoldi nel 1923, individuando su un colle erbese dove nel 1904 era stata allestita una grande esposizione ortofrutticola il sito idoneo per erigere un teatro, che dapprima venne realizzato con una semplice struttura in legno e nel 1928, trasformato in un palcoscenico con scalea di cemento, divenne il Licinium così come appare adesso, dopo una serie di restauri e adattamenti compiuti nel corso degli anni. La realizzazione, come ricorda Mauro Colombo nel suo volume denso di avvenimenti dedicato agli ottant’anni del teatro all’aperto, venne affidata ad una coppia di ingegneri, Fermo Bassi e Giacomo Bozzoli. Costoro disegnarono un palco circolare che non sarebbe spiaciuto a D’Annunzio per il parco del Vittoriale, parzialmente circondato da colonne di stampo antico ellenizzante, con ampi varchi spalancati sul bosco nel quale la costruzione, volutamente spoglia, s’inseriva con armonica compenetrazione spaziale. In definitiva, quella costruzione di sapore antico avrebbe dovuto apparire come una citazione, un reperto storico tale da suggerire la persistenza del ricordo di una specie di tempio o di arena per rituali o spettacoli di una civiltà pluruisecolare . Un’atmosfera di classicità, dunque, racchiusa in una finta vestigia di edifici provenienti da una lontana civiltà, dai nostri avi, che tuttavia consentiva di ospitare funzionalmente rappresentazioni spettacolari di vario genere. Il rischio era che tale cornice incastonasse una sorta di nuova Arcadia, aprisse la strada a pastorellerie di ascendenza metastasiana, in sintonia con l’ameno ambiente campagnolo. Il dubbio avrebbe potuto venire a quanti conoscevano l’amore per Virgilio di Alberto Airoldi, traduttore in un potente dialetto brianzolo che "el trona e zirla" dei versi delle "Georgiche". Ma Airoldi, uomo di acuta intelligenza e fervida immaginazione, aveva in mente ben altro e lo dimostrò chiamando l’autorevole grecista Ettore Romagnoli per la messinscena di tragedie classiche e, dopo aver ospitato una suggestiva versione del "Faust" goethiano, proponendo una sacra rappresentazione, quella rivisitazione drammaturgica della "Passione di Cristo" che, più volte replicata con trascinante favore di pubblico, costituì il vero timbro di nobilitazione del Licinium. Un timbro di avallo mistico. E qui l’intervento di Giuseppe Terragni, che la storia pluriennale del teatro nomina solo all’origine del suo insediamento, fornisce un altro elemento di valutazione. Quando mise mano al progetto del "Monumento ai Caduti", che occupa l’altro versante del medesimo colle, Terragni era giovanissimo, poco più che ventenne e quel progetto lo occupò come una tesi di laurea suppletiva. L’architetto vide sorgere il Licinium e, come raccontano testimoni oculari, rivisitò più di una volta il cantiere del teatro, scambiando idee e considerazioni con i due ingegneri Bassi e Bozzoli. L’incontro dovette essere di comune interesse e certo ebbe come conseguenza di favorire degli spunti progettuali non dissonanti, necessari proprio per l’ubicazione bilaterale dei fabbricati. Il Monumento era destinato a creare un accesso posteriore al teatro senza diaframmi intermedi, tanto che avrebbe dovuto costituire «quasi una sua continuazione», come scrisse Daniele Vitale in una scheda dedicata alla genesi del Monumento. Se non proprio una "continuazione" certo ebbe evidenti richiami al suo assetto formale, nell’andamento semicircolare che nell’edificio monumentale movimenta la grande scalea dall’effetto duplice, da fluida cascata in discesa, da ripida scalea in salita. Le linee a onde successive si replicano anche nelle rampe superiori, fino alla cripta del sacrario e all’esedra, che, alla sommità, riprende proprio la pianta a ventaglio del vicino palcoscenico teatrale, ma sostituendo al colonnato interrotto del Licinium, un po’ alla greca, un porticato concavo in pietra con aperture ad architrave e ad arco che allude più specificamente ad edifici della romanità. Soprattutto, l’ubicazione del Monumento si può dire che condizionò almeno in parte il destino del teatro, oltre che suggerire dei moduli costitutivi ritrovabili in ciascuno dei due fabbricati, concepiti per scopi diversi. Fu la sacralità del Monumento a dare ancora più slancio alla qualificazione del teatro, incoraggiando gli intenti dei suoi artefici che avevano mirato alto nel collocarlo là dove si trova. Così il "genius loci" si può ritrovare pienamente soddisfatto dall’operato di quanti si sono sempre adoperati per non tradirli, quegli intenti originari, allestendo anno dopo anno manifestazioni spettacolari degne di un passato che ha dato al Licinium una fama di serio e costante impegno culturale.
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