«L’Oriente di Ellington
immaginato da me»

Il grande jazzista, questa sera al San Teodoro di Cantù con la sua versione di “Far East trip”, intervistato per La Provincia da Alessio Brunialti

Cento anni di jazz nel “Far East trip” proposto dal grande jazzista Giovanni Falzone stasera, 25 gennaio, alle 21 al Teatro San Teodoro di via Corbetta 7 a Cantù (biglietti a 10 euro). Mezzo secolo fa, nel 1968, Duke Ellington presentava la sua “Far East suite”, scritta assieme a Billy Strayhorn e ispirata da un tour del “Duca” con la sua orchestra in Oriente.

Oggi Falzone rivisita quel capolavoro facendolo suo, senza ripercorrerlo pedissequamente, ma utilizzandolo come un modello per scrivere nuovi arrangiamenti e nuove partiture. La formazione scelta comprende solo fiati (oltre al leader Massimo Marcer alla tromba, Massimiliano Millesi al sax tenore e baritono, Andrea Baronchelli al trombone e al basso tuba) sostenuti dalla batteria di Alessandro Rossi. Un modello che rimanda agli albori del jazz, di un secolo fa. «Quella delle street band di ottoni, del resto, è la musica con cui Ellington è cresciuto», commenta Falzone.

Come nasce questo progetto che è già stato anche registrato su un album eccellente, che ha ricevuto ottime critiche?

Lo devo a Musicarmofosi, l’associazione brianzola con cui da tempo collaboro. A Lac di Lugano c’era un focus sull’India e questo lavoro che è dedicato proprio alle terre orientali sembrava il più appropriato.

Non è il primo omaggio a un grande della musica: ci sono stati Charlie Parker, Ornette Coleman, ma anche Jimi Hendrix e Led Zeppelin...

Quello che mi interessa quando metto mano alla musica di grandi maestri è non scadere nella trappola della cover. Per me si tratta sempre di ricevere un’eredità musicale e di partire da lì. Questo hanno fatto, ci hanno lasciato note, spunti, idee, arrangiamenti che è inutile rifare pedissequamente. Pensando a Ellington, l’eccellenza della sua orchestra è indiscutibile, inarrivabile e, quindi, irriproducibile. Invece creare questo ensemble ad hoc mi ha permesso di rivedere la suite sotto un’ottica diversa. Infatti ho estratto i quattro brani che mi sembravano prestarsi meglio al suono che avevo in testa e che ho arricchito con altrettante mie composizioni.

Com’è stato il lavoro su quest’opera?

Come dicevo, il sound di quell’orchestra, che ha segnato la storia del jazz, è irriproducibile e non mi interessava farlo. Ho asciugato, ridotto all’essenzialità delle voci dei fiati: un gruppo snello, pur toccando tutta la gamma del registro sonoro, dai toni gravi del basso tuba agli acuti delle trombe.

L’intervista completa in edicola con La Provincia venerdì 26 gennaio

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