Orson Welles,
l’immenso del cinema

Cent’anni fa nasceva nel Wisconsin il grande regista, attore e drammaturgo, scomparso nel 1985. Dalla radio a Hollywood una carriera avviata dal folgorante “Citizen Kane” (“Quarto potere”)

Cento anni fa, il 6 maggio 1915, George Orson Welles nasceva a Kenosha, nel Wisconsin. Il grande cineasta, attore, drammaturgo e, per qualche periodo, anche illusionista, pittore, musicista, si è spento a Los Angeles, il 10 ottobre 1985, trenta anni fa.

«All’epoca d’oro della radio eravamo parecchi a fare un mucchio di soldi schizzando da una soap opera all’altra. Presto ne feci così tante che non provavo neanche più. Facevo una brutta fine in qualche drammone strappalacrime al settimo piano della Cbs e correvo al nono - mi tenevano fermo l’ascensore - dove, mentre si accendeva la luce rossa, qualcuno mi allungava un copione e mi bisbigliava “mandarino cinese, settantacinque anni”, e via che scendevo in pista. Certi giorni facevo il pendolare fra le diversi reti radiofoniche su un’ambulanza. Se c’è una legge che prescrive di essere malati per affittarne una, perlomeno non mi hanno mai arrestato per averla violata».

Il racconto a Bogdanovich

Così raccontava Orson Welles a un divertito Peter Bogdanovich, discepolo devoto che tentò di strappare a quell’uomo così prodigo di racconti una confessione definitiva, paragonabile a quella che François Truffaut ottenne dal suo idolo, raccolta nel fondamentale “Il cinema secondo Hitchcock”. Ma Welles non era “Hitch”: l’inglese era un cineasta di successo, di grande successo, il suo tocco forse non era ancora riconosciuto dalla critica americana, ma il pubblico accorreva ovunque si proiettavano i suoi film, le major facevano a gara per accaparrarsene i servigi, a Hollywood era considerato un dio in terra, perfino la sua silhouette rotonda e inconfondibile era diventata un marchio di fabbrica, riconosciuto in tutto il mondo, quanto i baffetti e la bombetta di Chaplin. Welles era già disilluso dal cinema, disconosceva i suoi lavori rimaneggiati dai produttori e rifiutati dal pubblico, mentre la stazza sempre più abbondante lo imbarazzava, deformando quel ragazzo avvenente che si permetteva di invecchiare ad arte davanti alla macchina da presa, da bambino a vecchio morente nell’arco di un solo lungometraggio.

La guerra dei mondi

Così “Non tutto è verità”, riprendendo il titolo di un bel documentario, nella lunga chiacchierata di “Io, Orson Welles”, come nella recente antologia di chiacchierate tra l’artista e Henry Jaglom raccolta in “A pranzo con Orson”, appena pubblicato da Adelphi, solo uno dei volumi che arriveranno nelle librerie in occasione di questo centenario. Le porte di Hollywood si spalancarono anche per il giovane Orson, appena ventiquattrenne, uomo di teatro, mattatore della radio: la storiella che raccontò a Bogdanovich, impossibile verificarne la veridicità, accadde prima della grande paura, prima dell’adattamento della “Guerra dei mondi” del quasi omonimo H.G. Wells che sconvolse una nazione disattenta che ignorò la cornice del radiodramma e s’angosciò terrorizzata, convinta che i marziani fossero realmente atterrati in Kansas. Si aspettavano grandi cose, da lui, nella Mecca del cinema, ma non sospettavano che volesse realizzarne di così grandi. “Cuore di tenebra”, il capolavoro di Conrad, sarebbe dovuto diventare il primo film totalmente in soggettiva della storia, una discesa negli abissi della mente, prima del viaggio lungo il fiume che avrebbe condotto all’inevitabile epilogo, al cospetto del misterioso Kurtz che avrebbe avuto, ovviamente, le fattezze di Welles, disposto ad attendere fino all’ultima inquadratura pur di rubare la scena mormorando «The horror, the horror», come farà Marlon Brando molti anni dopo in “Apocalypse now”.

Il capolavoro non capito

I produttori, invece, non erano disposti, ma gli diedero carta bianca per “Citizen Kane”, il capolavoro che oggi giganteggia in testa a tutte le pigre classifiche dei “migliori film di tutti i tempi”, al punto che nessuno si sogna più di metterlo in discussione. Ma all’epoca lo fu: non sbancò i botteghini, non portò ulteriore gloria al suo demiurgo che, da allora, iniziò una parabola discendente che non ha eguali nella storia della settima arte. I suoi film vennero macellati: forbici apocrife modificarono il montaggio de “L’orgoglio degli Amberson”, mutilarono “L’infernale Quinlan”, banalizzarono “Rapporto confidenziale”. Non piaceva il ruolo del cattivo de “Lo straniero”, la demistificazione di Rita Hayworth operaya ne “La signora di Shanghai”, l’atmosfera inevitabilmente kafkiana e opprimente de “Il processo”. Neppure quando si ritrovò a maneggiare il suo autore prediletto, l’amatissimo Shakespeare con cui aveva rivoluzionato il palcoscenico americano ebbe vita facile: un “Macbeth” quasi invisibile, un “Othello” rincorso ai quattro angoli del globo, un “Falstaff” ignorato dal pubblico. Per finanziare questi sogni, come aveva fatto “all’epoca d’oro della radio”, interpretava di tutto, dalla pubblicità dei sigari alla voce fuori campo di un kolossal in costume.

Lavorò con Carol Reed, John Huston, Abel Gance, Martin Ritt, Pasolini, ma soprattutto con mestieranti alle prese con filmetti di poco conto: non importava, alla fine Orson era disposto a doppiare il robottone Unicron in “Transformers” pur di raccogliere i fondi necessari a completare “The other side of the wind”, o qualche altro progetto rimasto a vegetare in un archivio che è facile immaginare come l’immenso magazzino di Charles Foster Kane. La madeleine proustiana di Welles, la “Rosebud” che innesca tutto il meccanismo a incastro del suo primo film, era proprio quel “Quarto potere”, l’opera perfetta che ha dannato tutta la sua carriera e, quindi, la sua vita.

«Ho avuto più fortuna di chiunque altro. Certo, sono anche stato scalognato più di chiunque altro, nella storia del cinema, ma ciò è nell’ordine delle cose. Dovevo pagare il fatto d’aver avuto, sempre nella storia del cinema, la più grande fortuna».

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