Parini "licenzioso" a Como
Due sonetti inediti in biblioteca

Scoperti versi un po' "licenziosi", scritti per un matrimonio milanese. Li ha ritrovati l'italianista Vincenzo Guarracino, che ne difende l'autenticità. Ecco perché l'attribuzione è "quanto meno verosimile"

La didascalia, apposta da mano ignota in capo a una delle due facciate di una carta 15×20, avverte che si tratta di "Sonetti per matrimonio fatti a Milano", aggiungendo ancorchè dubitosamente che sono opera «dell’Abbate Parini».
C’è da dargli retta? Io credo di sì. Benché non ci siano altri elementi a confortarne più di tanto l’attribuzione (ma certo la grafia sembra corrispondere a quella del Nostro), non si fa infatti fatica a credere che la paternità sia quanto meno verosimile. E questo perché, a dispetto di un certo tono convenzionalmente lezioso che ammiccando indulge a immagini un tantino lascive e francamente insospettate sulla bocca di un religioso, la situazione appare facilmente riconducibile ad un uso sociale della cultura, quale è quello del ’700, che non si sottrae a temi d’occasione e anzi ama cimentarsi con essi, per convenienza o per intima convinzione che sia. Una pratica, questa, niente affatto estranea allo stesso Parini (Bosisio 1729- Milano 1799), a dar retta se non altro alla canzonetta "Le nozze", composta nel 1777 su richiesta dell’amico Gian Carlo Passeroni, che testimonia assieme a numerosi sonetti di medesimo argomento, la sua felice adattabilità a temi e forme molto in auge non solo alla sua epoca. Ma intanto val la pena di leggerli i nostri due testi, inquadrabili in un genere, quello dell’antico "epitalamio", canti appunto per nozze, reso nobile nel tempo da una tradizione poetica ricca e densa di nomi prestigiosi, da Saffo a Callimaco a Catullo, almeno fino a Leopardi (perché no? "Per le nozze della sorella Paolina" è configurabile proprio in quest’ottica) e non senza interpreti a noi anche più vicini.
Dice il primo, almeno quello che reca in testa la didascalia: «Chiusa è la soglia, ed al primiero invito / la tinge soavissimo rossore: / suggele i labbri il cupido marito, / e al talamo la tragge ostia d’amore. / I dolci amplessi, e ’l bel pudor tradito / sospira, e freme in due diviso il core; / piacer l’acqueta, e amabilmente ardito / converte in riso il femminil timore. / Copra con l’ali tu nell’opra ardente / Amor, che ingemma di feconde stille / il primo fior della giurata fede; / e al varco delle languide pupille / vengon l’anime paghe, e dolcemente / parlan tra lor del desiato erede». A sua volta, il secondo: «Del letto marital questa è la sponda: / seguirti più non lice, io parto, addio: / ti fui custode dall’età più bionda, / e pur te gloria aggiunsi al regno mio. / Donna e madre or sarai, se il Ciel seconda / l’Insubre speme, ed il comun desio; / già vezzeggiando ti conquisce e sfronda / i gigli amor, che ’l roseo serto ordìo. / Disse e disparve in un balen la Dea; / invan tre volte la chiamò la bella / vergine, che di lei pur anco ardea; / scese frattanto, e folgorando in viso / fecondità la man le prese, e diella / al caro sposo, e ’l duol cangiossi in riso».
Come è facile intuire, si tratta di due fotogrammi di un’unica scena di vita coniugale, uno riferibile al momento dell’ingressus nel talamo nuziale, l’altro ai preliminari e allo svolgimento dell’amplesso amoroso vero e proprio: una sequenza che, a dar retta anche ai numeri soprascritti (2° e 1°) alle due facciate, vede il secondo sonetto ("Del letto marital") antecedente cronologicamente al primo, a meno che non vi si voglia vedere il riflesso di un’ansiosa confusione, tra anticipazione e posposizione dei due momenti (hysteron proteron, si chiama tale inversione dell’ordine cronologico), quasi a suggerire l’emozione della situazione nella mente dei due giovani sposi, in preda a emozioni contrastanti, divisi come sono tra pudori e desideri. In ordine, ascoltiamo dunque nel secondo sonetto le parole del congedo della Dea (per antonomasia, Venere), che, al termine della rituale deductio della sposa dalla casa paterna a quella dello sposo, di fronte al "letto marital", invita la trepidante fanciulla a concedersi finalmente alle voglie del marito corrispondendo così alla sua «Insubre speme» e al «comun desio» di una casata ansiosa di perpetuarsi attraverso il «desiato erede» di cui si parla in conclusione dell’altro sonetto.
Nel primo, siamo nell’attimo immediatamente successivo, quando i due, finalmente soli, si apprestano a consumare l’amplesso desiderato e temuto, con la fanciulla che, vittima sacrificale sull’altare dell’amore (ostia d’amore), consente all’augusta voglia del «cupido marito», con le ombre degli Antenati (l’anime paghe) a presiedere alla promessa di un radioso futuro per la stirpe. Da questa pur superficiale analisi, una domanda sorge ed è logicamente autorizzata: possibile che il buon Parini, il «sacerdote di Talia», il «vecchio venerando» maestro di una generazione di poeti e di grandi Italiani, da Foscolo a Manzoni a Leopardi, celebrato per il rigore morale come «il personaggio più dignitoso e il più eloquente» del suo tempo, indulga a toni così cortigiani e licenziosi?
Questione di stilemi del genere (che tanto deve al Catullo dei carmi 61 e 62), è ovvio, ma anche attitudine personale. In altri termini, un conto è la scrittura, un conto è la vita. Questo per dire che non va valutato con il nostro metro moralistico tutto ciò che diceva e faceva. Ci si scandalizzerà a sapere, per fare solo un esempio, che anche il "buon Abbate" poteva avere inclinazioni più che amichevoli per Francesca Simonetta, moglie di Cesare di Castelbarco, o per Teresa Mussi, giungendo all’ardire di auspicarsi in un sonetto di vederla «ignuda»? Ma di questo si parlerà se sarà il caso in altra circostanza.

Vincenzo Guarracino

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