Ravasi, il re della seta
che inventò il made in Italy

Artista del design e imprenditore raffinato, è una figura comasca da riscoprire
Sarfatti, Trilussa e Toscanini frequentavano il suo salotto, sulla collina di Cardina

Si apre il 26 settembre a Como, promossa dalla Fondazione Antonio Ratti, una grande retrospettiva dedicata a Guido Ravasi, imprenditore e designer serico, che vestì regine e Papi. È una delle mostre-evento della stagione autunnale. Ecco il profilo di quello straordinario "re della seta".


Quando la fama dei suoi tessuti si diffuse in tutto il mondo, in Europa ma anche in America dove si era recato in transatlantico con altri imprenditori comaschi per lanciare la seta di Como, Guido Ravasi (1877-1946) decise di firmarsi con orgoglio «industriale d’arte». Una qualifica che sarebbe apparsa azzardata se nei primi anni del secolo scorso il problema dell’attribuzione di valore estetico non fosse divenuto assillante. Che cosa e in che misura poteva essere definito degno di assurgere al rango di "arte" anziché degradarlo come un’umile sua filiazione?

Un «industriale d’arte»

La questione non era meramente filosofica, non invadeva il campo del dilemma crociano "arte-non arte", riguardava più propriamente la necessità di uscire dalle gabbie definitorie delle cosiddette "belle arti". Si trattava semplicemente di stabilire se un certo tipo di artigianato, in grado di offrire prodotti non ripetitivi ma personalizzati dall’inventività, meritasse una maggiore considerazione. La diffusione dell’Art Nouveau, che coinvolse vari mezzi espressivi e ricorse a tecniche inconsuete per sfornare opere di un elaborato decorativismo, sdoganò le cosiddette "arti applicate": l’artigianato salì allora di parecchi gradini la scala della rispettabilità. Ci pensarono le grandiose Esposizioni universali, inaugurate a Londra nel 1851, per abbattere i residui steccati. All’Expo di Parigi del 1900 le sculture di Rodin e i dipinti degli impressionisti vennero esposti allo stesso livello dei vasi di Tiffany, degli arazzi di Burne Jones o dei mobili usciti dai famosi laboratori di William Morris, profeta dell’integrazione delle arti.

Magie sul telaio

In Italia il predominio dell’iniziativa straniera si attenuò quando a Torino, nel 1902 e nel 1911, si organizzarono manifestazioni simili agli Expo, dando adito ad utili confronti. Una svolta più radicale venne data, per merito soprattutto del socialista Guido Marangoni, direttore dell’Umanitaria, dall’istituzione nel 1923 a Monza di una scuola, l’Isia, e di una mostra Biennale dedicate allo studio e alla diffusione delle "Arti decorative" foggiate con materiali diversi, legno, stoffe, metalli, vetri, ceramiche, pietre preziose. Principali requisiti richiesti: l’originalità delle forme, l’eccellenza della realizzazione. È qui che entra a vele spiegate Ravasi. Ha ereditato dal padre la passione per la tessitura, ha compiuto anni di apprendistato presso le aziende più accreditate, a Zurigo, a Krefeld, a Lione, in Moravia, conosce tutti i segreti della trama e dell’ordito, usa il telaio come uno strumento musicale. Per di più è un appassionato cultore d’arte, ha imparato da solo o con il consiglio di esperti a disegnare, dipingere, scolpire. L’arte per lui non è un risultato da raggiungere, ma un modo di vivere. Nella sua villa di Cardina, costruita e arredata con amorosa cura, fonda un cenacolo intellettuale, riceve e ospita con signorile liberalità musicisti, artisti, letterati di spicco, stringe amicizia con Bistolfi, Toscanini, Bossi, Tallone, Ojetti, Wildt, mons. Galbiati, Ada Negri, Mafalda Favero, Trilussa, la Sarfatti, Calzini, tanti altri, chiama a collaborare con lui maestri ferrai come Mazzucotelli, orafi dell’abilità di Ravasco, scenografi e costumisti quali Rovescalli o Cito Filomarino.

A lezione dalla Sarfatti

Da loro assorbe idee stimolanti, cognizioni culturali che poi reinterpreta, adatta e riversa nel suo lavoro, tramutandole in luminose torsioni di fili, in preziosi intrecci serici, in raffigurazioni tramate di animali, persone, paesaggi che hanno una fiabesca eleganza. Tessuti per abiti, arredo o la cravatteria in cui eccelle per raffinatezza di armature e vivacità coloristica, escono a ritmo ininterrotto dai suoi telai, appaiono, drappeggiati ammirevolmente sotto la sua supervisione, in mostre ed esposizioni internazionali ottenendo premi e ambiti riconoscimenti, ma sono comunque disponibili sempre nell’atelier con spazio vendita aperto in locali di un edificio in piazza Vittoria, di fronte alla torre medioevale. Negli anni Venti dà il meglio di sé, tessendo fra l’altro quello che considerò la sua opera più rilevante, il manto laminato d’oro e ornato con i gioielli di Ravasco di cui fece dono a Pio XI, il Papa lombardo, nell’Anno Santo 1925. Ma si diede anche a progettazioni estranee al suo ambito operativo, come la scalinata che conduce alla stazione di San Giovanni ed esiste tuttora. La sua partecipazione autorevole venne richiesta in molte giurie, in organizzazioni di mostre, in manifestazioni pubbliche di ogni genere. Non gli riuscì tuttavia a convincere autorità e imprenditori perché unissero gli sforzi per allestire un Museo internazionale dell’Arte Tessile: la sede avrebbe dovuto essere Villa Olmo, dal momento in cui divenne di proprietà comunale.

Patriottismo fashion

La sua indole era intrisa di spirito patriottico, volle fermamente che l’ingegno italiano si guadagnasse la stima che meritava, valorizzando il suo patrimonio storico. Per questo non sciolse mai i legami con la tradizione, cercò di contrastare quelli che considerava eccessi del modernismo. S’illuse che le «magnifiche sorti e progressive» esaltate dal regime potessero attuarsi e il suo disincanto appare con amarezza nel suo libro di memorie, "Sotto il faggio rosso di Cardina", pubblicato in edizione non venale nel 1944. Trascorse gli anni della guerra in casa, ricostruendo i suoi ricordi. Morì a guerra finita. I giornali diedero solo una breve notizia della sua scomparsa: la gente aveva ben altro a cui pensare.

Alberto Longatti

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