Cultura e Spettacoli
Lunedì 20 Aprile 2009
Todorov: <L'Occidente? Non è più un modello>
Lo sostiene Todorov, celebre pensatore, in un'intervista esclusiva a "La Provincia"
Barbarie e civiltà, culture e valori, dialogo e conflitto: questi temi sono al centro della sua riflessione dai tempi di "La conquista dell’America. Il problema dell’altro" (pubblicato da Einaudi), uscito all’inizio degli anni Ottanta, inaugurando una serie di lavori d’analisi antropologica ed etnografica, che si sono andati ad aggiungere al filone di critica letteraria, mai abbandonato.
Fino all’ultimo scritto, intitolato "La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà" (284 pag., 16,50 euro).
Dopo l’11 settembre Todorov è diventato uno dei punti di riferimento del dibattito internazionale, gradito sia alla destra che alla sinistra (è l’unico autore recensito sia dai quotidiani La Repubblica che da Il Giornale!), per la sua capacità di cogliere e descrivere la complessità della realtà contemporanea con un linguaggio non tecnico, in grado di raggiungere chiunque creda nei valori dell’umanesimo. In occasione della sua conferenza tenuta qualche giorno fa alla Casa della Cultura di Milano, all’interno di un ciclo pensato da Salvatore Veca, La Provincia ha avuto la possibilità di incontrarlo e porgli alcune domande.
Professor Todorov, quando si ha un "incontro fra culture", il tema che lei ha scelto per la sua conferenza milanese?
Sempre e ovunque: non esistono, ne sono esistite in passato, culture che non fossero in contatto con altre culture. Il rifiuto dell’incontro è l’eccezione, ma non solo; è soprattutto la strada che conduce al loro declino. La storia della Cina ce lo rappresenta in modo evidente: le chiusure del tardo Ottocento portarono alla fine del Celeste Impero nei primi decenni del XX secolo, mentre le aperture della Cina comunista - Deng Siao Ping disse che «non importa il colore del gatto, purché prenda il topo» - stanno alla base della straordinaria ascesa di questi ultimi anni.
A suo avviso, la cultura occidentale ha ancora oggi la tendenza ad imporsi, come è avvenuto in passato?
Penso che la cultura occidentale abbia a tal punto permeato il mondo in cui viviamo che non sia più possibile parlare di "cultura occidentale" in senso proprio, separandola dalle altre civiltà. Ormai gli uomini prendono il meglio di quanto le diverse culture apportano e penso che questo sia un atteggiamento non solo ovvio, ma anche corretto: mi prendo la tecnologia giapponese, la cucina italiana, il vino francese (se mi permettete!), e così via… Perché no?
Nel titolo del suo ultimo libro - «La paura dei barbari. Oltre lo scontro di civiltà» - lei parla dei "sentimenti" prevalenti che caratterizzano la nostra epoca…
Esatto, e ne identifico quattro: l’appetito, da parte di quelle popolazioni che, in certo senso, solo oggi cominciano a "sedersi a tavola" (pensiamo a Giappone, India e Cina, per esempio); il risentimento, da parte di paesi ex coloniali che nutrono un desiderio di rivalsa (è il caso dalla maggior parte della popolazione musulmana, dal Marocco al Pakistan); la paura, sia nei confronti dei primi che dei secondi, che è il nostro sentimento, e, infine, l’indecisione, che coinvolge molti paesi che vivono un senso di disorientamento.
Nel titolo si allude alla barbarie: chi sono i barbari di oggi?
Non credo assolutamente che ad essere barbare siano delle popolazioni, barbari sono invece certi atti e comportamenti; in altre parole, i barbari non esistono, ma esiste la barbarie degli atteggiamenti che non riconoscono il valore dell’umanità, il fatto che questa è la qualità fondamentale che accomuna ogni uomo. Chiunque - io stesso naturalmente - è esposto al rischio della barbarie; e questo rischio aumenta con la paura: nella lotta contro il terrorismo in questi anni abbiamo ammesso, o almeno siamo stati testimoni, della detenzione senza giusto processo e della tortura come sistema inquirente: non è forse questa la più clamorosa dimostrazione che la barbarie è sempre in agguato? La paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari, e se dovessimo diventare suoi ostaggi il male che ci faremmo sarebbe maggiore di quello che temiamo di subire.
D’accordo, ma rimane un punto aperto: è davvero possibile il dialogo e il confronto con chi non riconosce i princìpi democratici?
Il dialogo fecondo non è possibile se non si ha qualcosa in comune. Ma questo non significa che non si possa dialogare con paesi che non hanno regimi democratici, perché questo caratterizza il loro sistema politico ma non l’umanità degli uomini che li vivono. Ripeto: abbiamo una comune umanità con tutti gli esseri umani della terra e questo è il punto da cui partire. Sempre. Un’ultima cosa: spero di ritornare presto in Lombardia, a Como. Ospite della Fondazione Antonio Ratti, ho tenuto una conferenza l’anno scorso ed ho un bellissimo ricordo della vostra città e del vostro lago.
Davide G. Bianchi
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