Moda-choc, la denuncia parte da Como

Livia Firth, produttrice di “The True Cost”, documentario sull’industria globale del fast fashion. Visita alla Ratti e incontro a Unindustria. Taiana (Gruppo tessili): «Distretto comasco, un modello per l’ambiente»

Elegante, pacata ma determinata, Livia Giuggioli Firth, moglie dell’attore inglese Colin Firth, ha lanciato anche a Como il suo messaggio forte e chiaro contro l’impatto umano e ambientale di certe lavorazioni tessili e di confezione effettuate in paesi in via di sviluppo.

La paladina dell’ambiente è arrivata in città per presentare il documentario “The True Cost” diretto da Andrew Morgan, che ieri ha inaugurato la quarta edizione del Lake Como Film Festival.

Prima tappa nel corso del pomeriggio presso la Ratti di Guanzate, per conoscere una delle aziende portabandiera del distretto serico. A seguire l’incontro in Unindustria Como, ricevuta da Claudio Taiana, past president del Gruppo Filiera Tessile dell’associazione, che ha subito aderito con entusiasmo all’invito di proiettare il filmato davanti a un pubblico di operatori della filiera.

«I contenuti di quest’opera sposano perfettamente i valori etici ed ambientali del distretto serico comasco -ha sottolineato Taiana -. Nelle nostre fabbriche già da tempo è stato avviato un processo di revisione di tutte le fasi dell’iter produttivo per evitare gli effetti inquinanti. Como esprime valori, non solo prodotti e sono tante le iniziative nate in loco per sensibilizzare l’intera industria manifatturiera nazionale».

Elegante, canotta nera e pants stampati a motivi geometrici, la Firth ha preso la parola, rivelando al Gotha della filiera tessile comasca che la sua agenzia Eco-Age da tempo collabora con alcuni nomi del distretto per il problema della tracciabilità. La società vanta consulenze anche con prestigiosi brand del fashion internazionale.

Entrando nei contenuti del film, di cui è produttrice, la Firth si è soffermata soprattutto sulle sequenze girate nelle fabbriche dell’Estremo Oriente dove sono stati delocalizzati i grandi volumi delle catene fast fashion.

«Sono delle prigioni, con le sbarre alle finestre - ha spiegato -. Le donne che vi lavorano in condizione di schiavitù devono produrre da 100 a 150 pezzi all’ora, per la misera paga di 46 dollari, con appena due pause al giorno»

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