Esperimento settimana corta? Intesa San Paolo proverà con i suoi dipendenti

Studi La più grande banca d’Italia introdurrà, su base volontaria, la possibilità di sperimentare un orario di lavoro ridotto a parità di stipendio. I primi esperimenti di questo tipo sono stati fatti in Islanda, mancano però ricerche scientifiche sul tema

Sarà la più grande banca d’Italia (sono ben 174 mila i suoi dipendenti) a sperimentare per prima una nuova modalità di distribuzione degli orari di lavoro e di organizzazione aziendale che in altre parti d’Europa. La proposta che Intesa San Paolo farà ai suoi dipendenti potrà essere accettata o meno e prevede un aumento delle ore lavorative giornaliere che diventeranno 9, ma si lavorerà solo per quattro giorni a settimana per un totale di 36 ore. Lo stipendio dei dipendenti che accetteranno di prendere parte a questa sperimentazione rimarrà però invariato, anche se di fatto si assisterà a una riduzione del monte ore complessivo che, ad oggi, è distribuito su cinque giorni e corrisponde a un totale di 37 ore e mezzo.

Ma perchè una misura di questo tipo verrà sperimentata dalla più grande Banca d’Italia sulla scia di numerose altre prove condotte in altre parti d’Europa?

Le prove a sostegno dell’esperimento

Secondo alcuni esperimenti condotti sull’efficienza sul posto di lavoro, la riduzione delle ore passate a lavorare aumenta la produttività in quanto garantisce un migliore equilibrio tra vita privata e lavoro, rendendo più soddisfatti i lavoratori stessi. Nello specifico, uno studio del 2014 dalla Stanford University dimostra che la produttività crolla una volta superate le 50 ore settimanali. A spiegare perché anche una settimana organizzata su un contratto che prevede 40 ore lavorative non sia la più produttiva è poi un professore dell’Università di Toronto, John Trougakos: «L’energia di una persona non può essere mantenuta al medesimo livello per otto ore in continuazione. Sforzare il grado di attenzione dei lavoratori per un lungo periodo di tempo significa costringerli a fare qualcosa di difficile che li porta a essere meno efficienti». E infatti, come risulta da alcune indagini, sono molti i lavoratori che faticano a mantenere sempre alto questo grado di attenzione: secondo uno studio del 2015 addirittura i lavoratori possono arrivare a passare più di due ore e mezza su Internet e sui social media.

Un equilibrio di fondamentale importanza soprattutto per le lavoratrici che potrebbero così realizzarsi professionalmente e come madri, qualora lo desiderassero, con tempi ben più distesi. Infine, un punto a favore della riduzione delle ore di lavoro è la possibilità di far crescere il numero di lavoratori assunti.

La prima sperimentazione in Islanda

L’Islanda è stato uno dei primi paesi che ha scelto di mettere alla prova i propri lavoratori sulla settimana corta nel 2014, quando il BSRB, il sindacato dei lavoratori del settore pubblico islandese, chiese al comune di Reykjavík di avviare uno studio empirico sulla produttività e il benessere dei lavoratori a fronte di un monte orario più ristretto. Lo studio in questione è durato 5 anni, ha coinvolto 2.500 lavoratori che hanno avuto una riduzione delle ore settimanali da 40 a 35/36 e il salario invariato.

Nel 2019 sono quindi state tirate le somme della sperimentazione e si è scoperto che le prestazioni lavorative non erano affatto diminuite e che anzi il rendimento dei lavoratori era cresciuto notevolmente: in uno dei call center del comune di Reykjavík le telefonate a cui i dipendenti assunti con contratto a settimana corta erano il 93%, contro l’85% di chi lavorava con un monte orario normale. I risultati, poi verificati anche grazie a uno studio più ampio condotto su tutto il Paese dal governo islandese sono stati confermati in un rapporto redatto dall’ALDA (Associazione per la democrazia sostenibile islandese) e dal gruppo di esperti Autonomy, che ha sede nel Regno Unito.

I lati negativi di una misura di questo tipo

I timori di chi sostiene che la settimana corta potrebbe dimostrarsi un esperimento fallimentare sono legati all’aumento di stress a causa del lavoro concentrato in poche giornate. Un’altra critica è rivolta alla possibilità di aumentare il numero dei lavoratori occupati qualora tutti lavorassero per meno giorni: in questo caso infatti il costo orario del lavoro aumenterebbe. C’è poi da considerare la specificità di singoli lavori, come ad esempio quelli destinati ai servizi e alla cura delle persone, che non funzionano per obiettivi e non possono quindi essere ottimizzati in poche ore ma necessitano un’assistenza costante, che deve quindi essere garantita da un personale più folto e quindi più caro.

Al di là delle sperimentazioni pratiche però, purtroppo gli studi scientifici a proposito di questo tipo di organizzazione del lavoro sono pochissimi. Uno di questi è una ricerca di IRVAPP, Istituto per la Ricerca valutativa sulle politiche pubbliche che si è occupato di verificare che tipo di risultati si ottengono, introducendo la settimana corta, su diversi piani: l’occupazione, la produttività e i salari. I dati presi in considerazione dalla ricerca risalgono indietro fino al 2005 e comprendono 72 aziende in 15 diversi paesi. Sono esclusi dallo studio però alcuni settori professionali particolari come l’agricoltura, il lavoro in miniera, l’educazione, le arti, i lavori legati alla sanità e l’intrattenimento.

Le conclusioni cui giunge la ricerca, grazie all’analisi dei risultati raccolti, sono che organizzazioni del lavoro basate sulla settimana corta in realtà non influenzano significativamente il livello di occupazione, che resta sostanzialmente invariato, ma migliorano di pochissimo i salari e la produttività dell’azienda. La settimana corta è quindi inutile?

Non proprio, ci sono degli effetti decisamente positivi che vanno tenuti in considerazione e che riguardano il benessere dei lavoratori, derivato da un miglior equilibrio tra vita privata e lavoro.

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