Il sacrificio di Deborah per la sua bimba: «Ha salvato il significato della vita»

La riflessione Il dramma della giovane comasca morta dopo aver rifiutato le cure in gravidanza. Il filosofo Pessina: «Ci dimostra quanto l’eroismo possa essere una scelta quotidiana»

«Di fronte a queste tragedie la prima tentazione sarebbe quella di tacere, per rispetto alla grandezza di un gesto di cui nessuno si sente capace finché è fuori da certe situazioni».

Ma poi Adriano Pessina, filosofo e docente di bioetica all’Università Cattolica di Milano, accetta la sfida perché «le tragedie sono capaci di illuminarci sul senso della vita e su quello che potremmo essere». La terribile, enorme storia di Deborah Vanini - la donna di 38 anni morta di tumore dopo aver dato alla luce una bimba e che aveva scelto di non farsi curare per portare avanti la gravidanza - chiama in causa tanti e tali sentimenti, tanti e tali valori, da inseminare la mente di un’infinità di spunti di riflessione.

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Il tempo

«La prima - dice Pessina - è la questione del tempo. Deborah ha vissuto un tempo in cui si sono intrecciati il dolore, la disperazione, ma anche la gioia e la speranza. Il suo non è stato solo un gesto - tanti forse sono capaci di un singolo, grande gesto di eroismo - ma un intero tempo vissuto per portare a termine la gravidanza. L’altro pensiero è che questa giovane donna è stata capace di non rinunciare a niente: non ha rinunciato a combattere la malattia, nè alla figlia che attendeva e della quale voleva vedere il volto. Perché se è vero che aveva rifiutato le cure mentre era incinta, quando poi la bimba è nata ha detto “voglio di nuovo tentare”. Non ha rinunciato a nulla ma ha messo in gioco delle priorità, e questo è il significato del sacrificio. La rinuncia sarebbe stata dire no alla maternità o a qualsiasi intervento di cura, invece ha scelto di vivere tutto quello che, in quella situazione, poteva vivere di positivo».

Il tema delle priorità rimanda a quello della scelta, vero spartiacque nella storia di Deborah e del suo compagno, come lei stessa ha raccontato su Facebook: «La questione vera all’interno di questi elementi che ci fanno riflettere - prosegue Pessina - è che richiamano una dimensione della profondità della vita alla quale abbiamo rinunciato. Deborah ci offre una testimonianza di profondità della vita, e lo leggiamo quando dice che questa storia le ha “salvato la vita”. Salvare la vita di un figlio vuol dire salvare il significato della vita stessa, e questo ci farebbe spalancare tutta una serie di domande su quanto sia rilevante la dimensione della maternità e quanto porti sempre con sè una scelta».

Pessina cita il filosofo Hans Jonas: «Jonas ha detto che il concetto di responsabilità è stato in qualche modo compreso da quando ci si è presi cura del generato. C’è una responsabilità che è rispondere dei propri gesti ad altri e una responsabilità verso qualcun altro che si chiama prendersi cura. Ecco, la maternità è il prototipo del prendersi cura. Ed è interessante che la stessa Deborah abbia voluto, con la sua testimonianza, manifestare questa decisione, e dimostraci quanto l’eroismo possa essere una scelta quotidiana».

Prendersi cura

Ma il “prendersi cura” è stata anche la dimensione in cui Deborah ha vissuto, circondata dall’amore della sua famiglia, del compagno e degli amici, e ha maturato la sua decisione: «È fondamentale non essere soli nella scelta, non basta capire cosa è bene fare ma è importante avere vicino qualcuno che ti aiuti a farlo anche quando non è facile. Uno degli elementi che colpiscono nella storia di Deborah è proprio la vittoria sull’angoscia grazie all’accompagnamento dei medici, del compagno e certamente anche del desiderio di vedere colei alla quale stava dando la vita». Non necessariamente un percorso figlio della fede. Al compimento del primo mese di vita della sua piccola, Deborah scrive: «Un miracolo, per me che non credo».

«Certo - conclude Adriano Pessina - la fede illumina l’umano, non lo sostituisce. Quella frase di Deborah è interessante proprio perché ci parla del miracolo della vita, la prospettiva cristiana illumina questa dimensione dell’umano che ci appartiene originariamente, non è qualcosa che si aggiunge ad essa o che la sostituisce».

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